la Repubblica, 3 agosto 2016
In Cina i veri ricchi giocano a polo
Pechino In Cina essere ricchi non è più reato. Esibire il benessere, pace all’anima di Mao Zedong, è anzi consigliato. Fare soldi costa fatica, impone di avere testa e di possedere conoscenza. Il portafoglio è direttamente proporzionale al proprio valore: in Asia più mostri la ricchezza, più dimostri di essere intelligente. Chi emerge tra oltre 1,3 miliardi di persone, ci tiene a farlo sapere: negli altri, oltre che invidia, desta ammirazione. L’«arricchirsi è glorioso» di Deng Xiaoping è archeologia ideologica. I nuovi capitalisti, grazie alla tessera del partito-Stato comunista, sono all’«esagerare è patriottico»: entrare nel club dei miliardari significa dunque dare lustro alla nazione. Il problema però è restarci, superando la campagna anti-corruzione scatenata dal presidente Xi Jinping. Per questo, chi in Cina è realmente ricco, gioca a polo. È la prova indiscutibile del successo ottenuto.
Acquistare uno yacht o possedere un’isola tropicale, è rapidamente possibile per qualsiasi arricchito. Un assegno ed è fatta, ma domani tutto può succedere.
Con il polo non badare a spese è diverso. In vetrina ci sono i soldi, ma prima di tutto il tempo. Ne serve parecchio per imparare a scegliere un cavallo, a montare, a colpire la palla con la mazza e a fare il tutto con i compagni di squadra. Anni di immensa capacità di spesa e di infinito tempo libero: solo chi è certo che il futuro non risulterà meno generoso del passato e del presente, in un Paese dove anche le dinastie rosse bruciano all’improvviso, adotta il polo per segnalare pubblicamente la propria misura. Il fotografo Kevin Frayer ha dedicato un anno per cercare di capire di cosa parlano i cinesi quando parlano di soldi. Ha documentato tutti gli strati della più classista società di massa della storia, ma per spiegare cos’è oggi la ricchezza in Cina ha scelto il polo, metafora perfetta di una rivoluzione trasformata in contro-riforma. Tra i palcoscenici più eloquenti c’è l’esclusivo Goldin Metropolitan Polo Club di Tianjin, meno di un’ora da Pechino. Per giocare qui è richiesta la presenza, in buona classifica, nella lista mondiale dei miliardari.
Mastini himalayani da 300 mila euro e orologi con diamanti dal milione in su, per gli ex «piccoli imperatori» sono ricordi comici dei padri. I patrimoni in renminbi, la moneta del popolo, si investono in mandrie di purosangue e pool di allenatori stranieri di livello mondiale. I quartieri dell’alta società cinese sono su misura: al centro, pur nel cuore di megalopoli soffocate dallo smog, si nascondono scuderie e pascoli, piste per il galoppo e campi per i tornei. L’atmosfera è quella della campagna inglese: tra gli appassionati qualcuno produce vino per gli amici, qualcuno distilla cognac. Cedimento all’influenza borghese dell’Occidente? Al contrario: è il trionfo della civiltà più antica dell’Oriente. Persiani e turcomanni giocavano a polo nel 600 avanti Cristo, i giapponesi impazzivano per il dakyu nell’ottavo secolo, mongoli e cinesi, grazie a Gengis Khan, si sfidavano a pulu, che in tibetano significa palla, prima di esportare la passione nell’India dei maharaja. Sono europei e americani, grazie alle truppe coloniali di Sua Maestà britannica, i parvenu dello sport dei re. I cinesi, prima di Mao Zedong e di Xi Jinping, erano ricchi e giocavano a polo.
Sono tornati, e preferiscono che si sappia in giro.