MilanoFinanza, 30 luglio 2016
A che gioco sta giocando Bolloré?
«Nel futuro come lo vediamo noi, si arriverà sicuramente alla convergenza tra la tv a pagamento e le compagnie di telecomunicazioni. Mentre non c’è, a oggi, alcuna ragione per prevedere una convergenza tra telco e tv free». È molto chiaro Marco Giordani, direttore finanziario di Mediaset e ad di Rti, nel proiettare oltre l’incidente in corso con Vivendi l’attenzione sul futuro del settore. «Al pubblico che si fa bastare la tv gratuita», spiega, «non ha molto senso offrire servizi a pagamento per vedere gli stessi contenuti. Anche su smartphone o tablet l’offerta deve continuare a essere gratuita. Quindi non vedo valore aggiunto. Invece, al pubblico abituato a pagare per i contenuti premium, fa comodo – anzi in fondo lo pretende – di potersi godere anche servizi supplementari di qualità ovunque si trovi e attraverso tutti gli accessi».
Sono due i livelli di ragionamento aperti dalla rottura clamorosa tra Vivendi e Mediaset (venerdì 29 i francesi in un comunicato hanno giustificato la loro marcia indietro con il risultato della due diligence condotta dal loro audit Deloitte dalla quale è emersa l’impossibilità di mandare Premium a break-even nel 2018 contrariamente alle previsioni). Uno è quello del negoziato duro, col debito corredo del preannuncio di cause e rivalse. L’altro è quello del da farsi domani. Dove i confini dei possibili scenari industriali travalicano immediatamente l’ambito della media company e abbracciano anche quello delle telco, reso pepato dal fatto che la Vivendi di Vincent Bolloré controlla Canal Plus ma anche Telecom Italia. Con sullo sfondo la comune minaccia contro tv e telco che arriva dagli Ott, gli over the top, come si chiamano in gergo i vari Google, Facebook, Amazon, eBay e per molti versi la stessa Apple, che oggi offrono anche contenuti video, sanno tutto dei loro clienti e riescono ad attrarli e trattenerli su una scala dimensionale globale, inarrivabile per chiunque altro. «Sì, distinguiamo bene questi due livelli di ragionamento», dice Giordani. «Sul tema del contratto rotto da Vivendi, siamo stati chiari. I contratti vincolanti si possono sempre rinegoziare, ma a ben determinate condizioni e non unilateralmente. Quando la General Motors decise di non voler più acquistare Fiat Auto, pago 2 miliardi e si sfilò. Quanto alle strategie, se Vivendi oggi vuole comprare la casa madre di Mediaset Premium, e non più la controllata, è segno che ha cambiato idea ma non certo che le verifiche sui conti di Premium non sono state congrue. Anzi: tutti i dati di bilancio sono migliori del budget in base al qualche Vivendi aveva firmato il contratto. Quindi non ha senso usare strumentalmente uno studio sul futuro di Premium commissionato dopo, ripeto dopo, la firma dell’accordo vincolante. Anche perché un imprenditore che fa un’acquisizione nel suo core business si presume abbia idee chiare su come impostare le strategie future dell’asset acquisito».
Resta il fatto, però, che nell’evoluzione rapidissima del mondo dei media – pensano ai vertici Mediaset – il modello di business della pay-tv nazionale non funziona più, e in tutta Europa le pay-tv si stanno alleando con gli operatori telefonici, consapevoli che diversamente potrebbero andare in crisi: «Si rendono conto che da sole non stanno più in piedi», precisa Giordani, «e anche il recente accordo Vodafone-Sky in Australia va in questa direzione. Tutti coloro che hanno soltanto la pay-tv – quindi noi con Mediaset Premium ma anche Canal Plus di Vivendi (che infatti accusa perdite-monstre, ndr) e perfino Sky, devono far evolvere e presto il loro modello di business». Ma se la pay tv è a un punto di svolta, il mondo della tv gratuita non perderà invece – a detta della maggior parte degli analisti – la sua centralità.
«Il futuro dell’industria dei contenuti è il modello fremium, cioè un mix di nuova concezione tra la tv generalista gratuita e un’offerta aggiuntiva a pagamento di alto valore», dice Carlo Alberto Carnevale Maffè, professor di Strategia e Imprenditorialità alla Sda Bocconi, tra i massimi esperti in materia: «Chi ha la tv generalista se la tenga stretta! Del resto io, anche nelle vesti di advisor della Federazione italiana gioco calcio, da tempo ho sostenuto che a tendere perfino il prezzo del grande calcio si ridurrà verso lo zero. Per questo penso che la vera strategia non sia restringere l’accesso ai contenuti per farlo pagare ma sia quella di offrire a pagamento solo contenuti davvero preziosi: inside information, altissima qualità tecnologica, riprese particolari. Insomma, eccellenze». Quello che Maffè indica è probabilmente il futuro anteriore, ma intanto? Gli affari si giocano anche sul termine breve e medio: «Non mi appassiona molto il tema della convergenza tra media e telco», dice Andrea Granelli, tra i pionieri del web italiano come ad di Tin.it e oggi a capo della società di consulenza Kanzo: «Ma certo non credo che il business dei contenuti sportivi sia scalabile verso livelli molto superiori a quelli attuali, e questo significa che le borse resteranno tiepide sul tema. Certo, la tv fa sempre gola alle compagnie di telecomunicazioni che si sentono sorpassate dai campioni del web, e continua a conferire prestigio e visibilità a chi se ne occupa ma secondo me, nel settore, tra media company e telco, più che esserci un problema di scarsa convergenza c’è un problema di scarso pensiero. Il futuro è chi avrà le informazioni sui clienti, di chi saprà offrire loro ciò che veramente vogliono, su questa o quella piattaforma ma partendo dai big-data e dalla loro analisi». Perché le media company tradizionali e le telco hanno un problema comune, cioè la concorrenza – irrefrenabile e in legal-dumping – degli Ott. Che grondano utili, come hanno dimostrato i recenti risultati di metà anno di Amazon, Google e Facebook».
Non a caso, per la prima volta dopo molti anni, una grande compagnia telefonica americana, Verizon, sta tentando di contrattaccare e ha acquistato Yahoo, la perdente nella sfida dei motori di ricerca contro Google, per l’astronomica cifra di 4,83 miliardi di dollari. Cosa vuole farsene? Unendola ad Aol, Verizon vuole costruire l’alternativa a Google a trazione telefonica. Non vuole più fornire accesso a Internet con tariffe flat e basta, mentre sulla sua rete gli Ott lucrano molto di più. Vuole entrare nel mercato della pubblicità digitale, 187 miliardi di dollari di valore, in cui si attesterà al terzo posto dopo appunto Google e Facebook negli Usa. Alle informazioni che anche gli Ott puri ricavano su gusti e comportamenti dei propri clienti, Verizon potrà aggiungere la funzionalità del billing integrato in tutti i servizi, che facilita pagamenti e incassi. Senza contare la variabile Trump, cioè un sempre possibile soprassalto regolatorio di impronta conservatrice, che potrebbe imporre a Google e agli altri operatori web puri di pagare il dazio alle reti: oggi, mentre le prime 4 telco americane (At&t, Verizon, Vodafone e Telefonica ) capitalizzano in borsa gli stessi 500 miliardi di dieci anni fa, i 5 big di Internet capitalizzano 1.500 miliardi, il decuplo di dieci anni fa. Potranno, le telco, riuscire in una rimonta? Facendo sistema (e lobby) forse sì, ma sono troppe e troppo eterogenee: se negli Usa sono 5, in Europa quelle con più di 2 milioni di clienti sono 81. Sapranno lavorare insieme? Come possa, infine, in questo scontro fra titani, inserirsi l’industria televisiva appare un tema quasi marginale. Eppure ha un elemento qualificante che lo impone sugli altri: attraverso i contenuti video si formano opinioni e gusti della gente, la stessa che poi sul web, e quindi usando le reti delle telco, esprime e canalizza i suoi consumi. In questo senso, telco, media company e Ott sono le tre gambe di uno stesso tavolino: peccato che oggi l’unica gamba d’oro è quella degli Ott. Quanto potrà durare una simile asimmetria?