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 2016  agosto 02 Martedì calendario

I raid americani contro l’Isis sono anche un segnale ad Erdogan

I raid americani in Libia contro l’Isis, i primi dei caccia Usa dal 2011, hanno un valore politico oltre che militare. Sono un deciso appoggio al governo di unità nazionale di Fayez al Serraj, compattano almeno una parte delle fazioni libiche. E forse mandano un messaggio obliquo alla Turchia di Erdogan, in aperta frizione con la Nato. Il quadro è assai complicato, più di quanto non dicano i bollettini di guerra. A pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina diceva Andreotti, grande amico di Gheddafi, che negli anni ‘70 salvò da un golpe inglese, ma questa operazione militare americana, sia pure giustificata dalla lotta al terrorismo dell’Isis, appare a prima vista come uno scacco al governo di Tobruk, che non ha mai accettato finora quello di unità nazionale a Tripoli.
Non è neppure un buon segnale per il generale Khalifa Haftar, che voleva diventare il liberatore dal Califfato per proporsi come l’unico pretendente al potere. Non lo è nemmeno per i suoi alleati, il generale egiziano Al Sisi e la Francia, che qualche giorno fa ha dovuto ammettere la perdita di alcuni uomini delle forze speciali caduti al fianco delle truppe di Haftar. L’Egitto non ha mai rinunciato alle mire in Cirenaica e ad avere il controllo della frontiera orientale, la Francia vede nella Libia una cassaforte energetica e un Paese chiave per estendere la sua influenza sotto il Sahel.
I bombardamenti coincidono con una fase di imbarazzo per le operazioni della Francia in Libia. Il sostegno al controverso generale Haftar, nemico numero uno di Tripoli, ha reso evidente la politica del “doppio binario” intrapresa da Parigi nell’ex colonia italiana: una guerra neppure troppo sotterranea condotta con un nemico dei jihadisti ma anche fiero avversario del governo della Tripolitania, in netto contrasto con il riconoscimento di Parigi dell’autorità del governo di unità nazionale.
Ecco perché la lotta al Califfato in Libia, come del resto in Siria, risponde a logiche di guerre per procura – oltre che di aggrovigliati conflitti interni – lanciate in base alle promesse di accordi economici petroliferi.
L’Occidente rischia di ricreare in Libia lo stesso scenario che si era delineato nella Somalia del 1991 dopo la caduta del dittatore Siad Barre. I Paesi occidentali hanno scelto di appoggiare militarmente vari signori della guerra libici secondo le convenienze politiche e le promesse economiche ricevute dalle diverse fazioni, in primo luogo riguardo le immense risorse petrolifere e di gas. Una tattica che potrebbe rendere eterno il conflitto nel Paese nord africano, la stessa utilizzata in Somalia dal 1991 al 1993 e che vanificò ogni tentativo di pacificazione.
I raid Usa sono stati accompagnati da un’altra notizia significativa. La National Oil Corporation libica (Noc) ha accolto con favore l’annuncio da parte del Consiglio di presidenza di Tripoli della “riapertura senza condizioni” dei porti orientali sotto il controllo delle guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran. Di fatto le milizie del comandante avevano in pugno tre terminal ( Ras Lanuf, Sidra e Zueitin) rimasti chiusi per quasi quasi due anni. Insieme ai fondi stanziati da Tripoli, questo significa che la Noc potrebbe riportare entro fine anno la produzione a 900mila barili di petrolio. Il crollo della produzione ha avuto per la Libia un costo evidente: decine di miliardi di dollari di mancati introiti e la disintegrazione del tessuto sociale sostenuto dai sussidi distribuiti con i proventi dell’oro nero.
La ripresa dell’export potrebbe avere un effetto stabilizzante quanto e forse più dei raid americani. Secondo i dati forniti da Eunavfor Med tra il 30 e il 50% per cento del Pil della Tripolitania è generato dai traffici di immigrati verso l’Italia, un traffico che sostiene indirettamente lo stesso governo di Al Sarraj. La possibile fine dell’Isis e il ritorno del petrolio libico sui mercati potrebbero diventare due ottime notizie anche per l’Italia.