Corriere della Sera, 2 agosto 2016
Le mani di Mussolini sul pallone in un libro di Enrico Brizzi
L’anno 1926, per il calcio italiano, rappresenta lo spartiacque tra la fase eroica dei pionieri e l’era della modernità. Il regime fascista si sta implacabilmente insinuando nella vita quotidiana degli italiani e in quegli anni Venti, ai nuovi padroni del Paese, non sfugge la genesi di un fenomeno nuovo e rampante. Si chiama gioco del calcio, ed è una sorta di incendio che sta bruciando sottotraccia: organizzazione approssimativa, attività spezzettata in tornei su base regionale, club che nascono e muoiono nello spazio di un mattino. Eppure, quel calcio di romantica avanguardia, già in grado di intercettare passioni e sentimenti della gente, sta attirando negli stadi folle sempre più numerose.
Massa uguale consenso, un’equazione che il regime vuol risolvere in fretta. Infatti: Benito Mussolini, nel 1926, nomina capo della Federazione gioco calcio un amico di lunga data, Leandro Arpinati, fascista della prima ora e sfegatato tifoso del Bologna. L’anno prima, schierando i suoi squadristi a bordo campo, e nei momenti cruciali anche dentro, il gerarca emiliano ha in pratica deciso l’assegnazione dello scudetto ai felsinei nella finale contro il Genoa.
Arpinati riceve da Mussolini l’ordine di «fascistizzare» il calcio, trasformarlo cioè in gioco di Stato. La riforma che nasce, passata alla storia come la «Carta di Viareggio», legalizza il professionismo, riformula su basi più trasparenti il calciomercato e soprattutto abolisce la separazione tra Nord e Centrosud, creando il torneo di Divisione nazionale nel quale, in nome dell’unità dell’Italia fascista, si affronteranno le venti migliori squadre del Paese.
Se vogliamo capire che cosa è il calcio oggi, è a quell’anno, il 1926, che bisogna far riferimento. E proprio questo è il punto di partenza dal quale muove lo scrittore Enrico Brizzi – già autore di un bel volume sulle origini del gioco —, per continuare nel volume Vincere o morire (Laterza) il racconto di un fenomeno sportivo e sociale destinato ad entrare nella vita collettiva del nostro Paese. A cominciare dal successivo passo evolutivo prodotto dalla riforma: l’attrazione fatale verso il pallone di nuove risorse e forti investimenti privati.
È il periodo di grandi crescite societarie: la Juventus degli Agnelli e di «Mumo» Orsi, dominatrice del quinquennio dal 1930 al 1935; l’Ambrosiana del «balilla» Peppino Meazza; il Bologna «che tremare il mondo fa»; la Lazio di Silvio Piola, tanto per citare alcuni esempi. La figura del calciatore, perlomeno del calciatore-fuoriclasse, ha un cambio di passo che lo proietta idealmente fino alla nostra epoca: non più semidilettante allo sbaraglio, ma sportivo ben pagato e acclamato dalle folle, contiguo al potere di cui è testimonial eccellente.
Assume un ruolo nuovo e più centrale anche la Nazionale, guidata dall’ex alpino e giornalista Vittorio Pozzo. L’epica di un regime incline a mostrare i muscoli si rafforza anche attraverso i successi degli azzurri: il Mondiale organizzato in Italia nel 1934, quello del 1938 disputato in Francia, e in mezzo pure l’oro olimpico ai Giochi di Berlino nel 1936. È l’apoteosi del calcio in camicia nera, che romanamente saluta le autorità schierate in tribuna e rinvia a un’idea forte di orgoglio patrio e di specificità nazionale.
La narrazione di Brizzi affascina per abilità di costruzione, solidità di fonti e ricchezza di dettagli: nello scorrere di vite spesso straordinarie e nei rimandi a personaggi impareggiabili (calciatori-simbolo come Schiavio, Levratto, Combi, Baloncieri o Monzeglio, ma anche gerarchi corrotti, industriali visionari, intellettuali organici e allegre dame dell’epoca), c’è il ritratto di uno sport che smette di essere solo gioco per diventare un formidabile strumento di propaganda e consenso. E quello, laterale ma non troppo, di un Paese sempre più diviso che sta correndo verso i disastri della frantumazione e della Seconda guerra mondiale.