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 2016  agosto 02 Martedì calendario

Con i bombardamenti in Libia gli Usa passano alla Fase III

La guerra «segreta» va avanti da mesi, ora comincia quella «aperta». All’inizio del mese erano uscite le intercettazioni dei contatti radio con un centro di Benina, voci dagli accenti inglese, americano, italiano e arabo. Codici «Ascot 9908», «Mustang 99», «Bronco 71». Probabili comunicazioni dei piloti impegnati nell’aiuto alla milizia di Khalifa Haftar, il generale molto attivo nell’Est del Paese. Uno dei tanti interventi occidentali per contrastare le fazioni jihadiste libiche, compreso l’Isis. Operazioni non prive di rischi come confermato dall’uccisione di tre commandos schierati da Parigi. Uomini sul terreno affiancati dai voli di spionaggio statunitensi, molti in partenza dall’Italia. Adesso, con le incursioni aeree decise dalla Casa Bianca, l’impegno è destinato ad aumentare, nella speranza di imprimere una svolta ad un conflitto dalle implicazioni diverse, legate alla sicurezza regionale, alle infiltrazione eversive e all’esodo migratorio. Il presidente Obama è sempre stato cauto sul dossier Libia. Ha «inseguito» e seguito i partner europei nella campagna anti Gheddafi, poi ha sistematicamente frenato. Perché la situazione sul terreno era troppo confusa e non voleva trovarsi in uno scenario alla siriana, di tutti contro tutti. Sullo sfondo il «dogma» di evitare l’ennesimo conflitto senza che ci fosse una via d’uscita certa. Dunque il Pentagono si è limitato ad alcuni raid per eliminare capi terroristi, l’intelligence ne ha catturati diversi con veloci colpi di mano della Delta Force, le unità speciali hanno allargato la sfera d’azione creando un paio di avamposti, uno a est, l’altro a ovest. Sempre sulla linea del contenimento e non dell’impiego massiccio. Tanto è vero che a febbraio la Casa Bianca avrebbe replicato con un no alla richiesta avanzata dai generali per condurre bombardamenti ampi sulle posizioni dello Stato Islamico. Il che non avrebbe impedito sortite specifiche affidate ai droni basati a Sigonella e magari a qualche caccia. In base agli ordini gli strateghi hanno preso tutto il tempo necessario preparando un piano in tre fasi. Con Operation Odyssey Resolve hanno svolto attività di ricognizione per raccogliere dati e monitorare gli estremisti. Con Operation Junction Serpent hanno preparato una lista di target — si era parlato di oltre 50 — in modo che se fosse arrivata la luce verde avrebbero potuto sferrare gli attacchi. Infine, nel weekend, è partita Odyssey Lightning: la prima ondata di strikes contro le posizioni del Califfato. Missioni, come dicono da Washington, destinate a proseguire tenendo conto di una serie di elementi. Primo: sostenere le forze amiche in una fase critica, per piegare la resistenza tenace dell’Isis a Sirte. Secondo: il governo in Libia — quello di Serraj — ha chiesto aiuto specifico. Formula di facciata che comunque conta. Terzo: risposta indiretta, psicologica e militare, all’ondata di attentati in Europa. Quarto: riprendere l’iniziativa in un momento di evidente difficoltà dell’Occidente e nel mezzo della campagna elettorale statunitense.