Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 31 Domenica calendario

Consigli per convivere con la violenza

La violenza del «sangue caldo» irrompe nelle nostre strade e nelle nostre piazze. Il male fa spettacolarmente ritorno. Forse non era mai davvero scomparso. Piuttosto era venuto meno nell’ordine del giorno della politica, ed era stato moderato e mitigato nei palinsesti della cronaca. La guerra tecnologica, più o meno mirata, più o meno asettica, ci aveva portato a credere che massacri e stragi potessero accadere ancora solo in quelle città, Kabul o Bagdad, Mosul o Aleppo, dai nomi così palesemente estranei da apparire quasi rassicuranti. Come se si trattasse di incendi ancora da spegnere (ma non abbiamo contribuito noi ad accenderli?), focolai di inciviltà da domare e addomesticare.
Il grande racconto del progresso morale, del miglioramento della vita, in auge dagli anni Sessanta, si spegne oggi, soverchiato dalle urla inorridite delle vittime sul lungomare di Nizza, dagli spari esplosi contro giovani e adolescenti in un grande magazzino di Monaco, dal rantolo del sacerdote sgozzato in una chiesa presso Rouen. Certo la storia, anche quella più recente, è stata scandita da morte e distruzione. Ma il male – si sa – viene presto cancellato dalla memoria. Sebbene nell’alternarsi di orrore e trasfigurazione siano rari gli intermezzi aurei di pace, e negli annali della storia umana non consistano, in fondo, che di pochi fogli vuoti, ci eravamo illusi, spesso in malafede e in cattiva coscienza, che avremmo goduto di un lungo immacolato capitolo di vacanza dal male, nelle sue forme più crudeli e parossistiche. Che lo vogliamo o no, siamo entrati in una nuova epoca storica, tutta da scrivere, dove con il male sarà, purtroppo, necessario convivere.
L’attentatore vestito di nero è lì, sul pavimento dell’aeroporto di Istanbul, già ferito. Pochi secondi – trasmessi senza remore dalle emittenti di tutto il mondo – e poi, con un gesto al tempo stesso epico e scurrile, fa del suo corpo un’arma. È come se lo schermo si frangesse, attraversato da sangue e carni dilaniate. Distogliamo lo sguardo – ma solo per un attimo. Ripugnanza e disgusto lasciano il posto all’attrazione esercitata dal fascino della violenza che, mirando al corpo, rimuove tabù e interdizioni. C’è persino un che di sublime: a distanza di sicurezza lo spettatore si erge sull’accaduto e, dinanzi alla distruzione del corpo altrui, si sente un sopravvissuto. In effetti lo è. Entusiasmo per la sopravvivenza e brama di vita lo assalgono. Elias Canetti ha descritto magistralmente questa fenomenologia del sopravvissuto: «Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, perché chi guarda non è lui stesso morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto innanzi». Ma ciò non vuol dire che il sopravvissuto continui a vivere come prima.
La nostra vita non sarà più quella consueta. Occorre riconoscerlo. Non solo per l’alternarsi di insicurezza, paura, angoscia. Il futuro non assomiglia né al presente né al passato. Mentre sembra mancare il terreno sotto i piedi, un’ombra cupa si posa sull’animo di ognuno. Non bastano le disposizioni varate dalla politica dell’emergenza per placare l’inquietudine diffusa. La violenza distruttiva si fa complice dell’immaginazione e il male assume forme nuove, eruttive e espansive, in un crescendo quasi orgiastico.
Ogni giorno i notiziari riferiscono l’estatica danza di annientamento della furia omicida che dilaga. Che sia rabbia o noia, odio o risentimento, depressione o fanatismo, protagonismo o vendetta, frustrazione o povertà, sradicamento o puberale smania di farsi valere, conflitti familiari o trauma psicotico, gli esecutori del terrore, spesso giovani e adolescenti, si trasformano in tiratori scelti, sequestratori, attentatori, assassini. Inutile voler trovare a tutti i costi un motivo, cercare una spiegazione plausibile. Ogni storia, pur essendo affine alle altre, ha i suoi tratti peculiari. Perché la violenza non è legata a un motivo particolare. Nell’eccesso del furore chi uccide passa ogni confine e si fonde, quasi, con la violenza. È tutt’uno con l’arma automatica, il cui crepitio pare sgravarlo da ogni peso, trascinandolo nella vertigine della libertà assoluta. Così può dare la morte, e spesso anche darsi la morte, in una ribellione estrema contro l’esistenza.
Il male che ci inquieta oggi profondamente è proprio questo «no», implacabile e tremendo, rivolto contro l’impegno a esistere. Chi immolandosi porta la morte, improvvisa e imponderabile, nei mercati e sui treni, nei teatri e sulle spiagge, non vuole alcunché dalle sue vittime, trucidate indiscriminatamente, né vuole, in realtà, nulla. Nessun compromesso, né trattativa. Mira a una violenza dimostrativa, autocelebrativa, che richiede perciò, come scenario, uno spazio della socializzazione e, se non lo avesse, può contare sulla risonanza mediatica. Più crudele è l’atto – ad esempio una decapitazione, come quella di un giovane soldato turco sul ponte sul Bosforo – più frenetica l’esaltazione, più potente la maestà politica.
È possibile, in tempi di pace, morire sotto i colpi di un kalashnikov mentre si è seduti al tavolino di un bar? Oppure soccombere sotto i colpi di un’ascia in un comodo vagone, durante un viaggio turistico? Nel nostro mondo, che non è mai stato così armato, basta solo un po’ di inventiva per escogitare nuovi orrori. Chiunque, da un momento all’altro, può convertirsi in un nemico mortale. Perciò non c’è difesa.
Insieme alla creatività, la civiltà aumenta anche la distruttività. Il male non è dunque uscito di scena – come alcuni hanno ingenuamente creduto. E rivendica ora uno scenario spettacolare. Dovremmo dire che siamo entrati nel tempo della rivincita del male? Come se il male fosse la risposta al vuoto politico, al silenzio della storia, all’assenza di un evento atteso, che dovrebbe mutare la rotta del mondo. Perché da un canto desideriamo che non succeda nulla, dall’altro vorremmo che irrompesse un evento straordinario. E invece di quell’evento si scatena il prossimo attacco, viene perpetrata una nuova strage.
Solo qualche anno fa, con toni quasi premonitori, Jean Baudrillard intitolava un suo saggio Ma dov’è dunque finito il Male?. La sua tesi è che abbiamo preteso di «sterminare il Male sin nei minimi interstizi», per offrire l’immagine di un universo radioso, trasparente, levigato, riabilitato, riscattato. L’omissione del male ha improntato la nostra epoca. Esorcizzato, tabuizzato, taciuto – persino nel politicamente corretto – il male ricompare, anzi riesplode, con un sovrappiù di energia demonica, per diventare quasi arma nelle mani di chi si incarica di articolarlo. Come dimenticare il recente massacro dei disabili a Sagamihara, in Giappone? E così il male, questa convulsione interna all’ordine mondiale, appare inestirpabile nella sua radicalità.
Si può essere d’accordo o no con Baudrillard, ma certo colpisce la convinzione con cui alcuni riprendono, spesso fraintendendole, le parole di Hannah Arendt. Non c’è ormai nulla di più banale, di fronte alla gravità degli avvenimenti che si susseguono, che parlare di «banalità del male». Si tratta un modo reiterato di tabuizzarlo. Il male non è banale. Semmai è un limite della politica e dell’informazione non essere in grado di dire e di pensare il male, tentando invece di sbarazzarsene.
Se oggi non ha una presenza metafisica o mitologica, il male è tuttavia diffusamente presente, in tutte le infinite forme astratte e virali, ma anche arcaiche e crudeli, che ci circondano e ormai, in modo oscuro e incomprensibile, ci minacciano.
A lungo non abbiamo voluto vedere le scintille di male che si andavano accumulando nel cuore dell’infelicità contemporanea. Ed ecco che là dove avrebbe dovuto realizzarsi una convivialità armonica, il male esorcizzato torna prepotentemente a rubare la scena, lasciandoci inorriditi e indifesi più di sempre.
Non serviranno sermoni moraleggianti e consolatori. Con i fenomeni ignoti e sconvolgenti di questo male dovremo convivere. Importante è non negarlo, ma considerarlo nella sua umana abissalità. Ci aiutano le riflessioni di chi, come lo psicologo Simon Baron-Cohen, riprendendo una lunga tradizione di pensiero, ci suggerisce che il male affiora dove viene meno l’empatia per gli altri. Non ci resta che fare affidamento sulla nostra empatia per continuare a vivere e a convivere. Questa è la sfida immane che dobbiamo accogliere.