Corriere della Sera, 31 luglio 2016
Gli hacker russi vogliono mettere le mani sullo staff della Clinton
Non solo il partito. Gli hacker avrebbero colpito anche lo staff più ristretto di Hillary Clinton. I pirati informatici sarebbero entrati per cinque giorni in un programma di gestione della campagna elettorale. La portavoce dell’organizzazione di Hillary, Nick Merrill, ha dichiarato che «finora non sono emerse indicazioni che il sistema sia stato compromesso». L’Fbi ha subito aperto un’indagine e in una nota conferma che «sono in corso accertamenti su cyber-intrusioni riguardanti diverse entità politiche». La vicenda è seguita direttamente anche dal Dipartimento di Giustizia, cioè dall’amministrazione Obama.
Il sospetto è che anche questa tornata sia parte di un’offensiva più ampia e sistematica lanciata dalla Russia contro la prima donna candidata alla Casa Bianca. A questo punto c’è qualcosa di più di un indizio, ma ancora qualcosa meno di una prova definitiva. Quale sarebbe il movente di Putin? Il presidente russo ha sempre avuto un rapporto difficile con Hillary al Dipartimento di Stato, considerata troppo vicina ai Paesi dell’ex Unione Sovietica, per esempio. Ed è evidente che il leader del Cremlino preferisca decisamente che sia Trump a conquistare la Casa Bianca.
Il caso nasce dalle rivelazioni del sito WikiLeaks, che venerdì 22 luglio, tre giorni prima che iniziasse la Convention di Filadelfia, pubblicava circa 20 mila mail scambiate tra i vertici del partito, nel corso della campagna elettorale. La sostanza dei messaggi: fare il possibile per bloccare l’avanzata tumultuosa di Bernie Sanders, lo spigoloso avversario di Hillary Clinton. Nella vicenda si era inserito Donald Trump, chiedendo in modo provocatorio alla Russia di «recuperare e passare poi ai giornalisti» anche le altre mail, quelle gestite su computer e telefonini privati da Hillary, quando era segretario di Stato.
Il precedente di «cyber crisi» più vicino risale alla fine di dicembre 2014. Barack Obama annunciò pubblicamente una forma di rappresaglia contro la Corea del Nord, accusata di aver organizzato l’intrusione nei computer della Sony. Obiettivo: sabotare il film «The Interview», che immaginava un complotto per uccidere il dittatore Kim Jong-un.
Il problema politico, naturalmente, è che la Corea del Nord non è la Russia. Venerdì 29 luglio, in una riunione riservata sulla sicurezza nazionale ad Aspen, in Colorado, John Brennan, direttore della Cia, ha sviluppato un’analisi preoccupata. Nel giugno del 2013 l’ex tecnico della Cia Edward Snowden rivelò con gran clamore informazioni segrete sui programmi di spionaggio americano in Europa e in Russia. Ma Brennan, come riporta il New York Times, distingue tra la «normale» attività di «monitoraggio», che non è mai finita dopo la Guerra fredda, e le manovre per condizionare il momento più delicato della vita democratica degli Stati Uniti: la campagna presidenziale. «Ovviamente interferire nelle elezioni è una faccenda molto, molto seria».
Il capo della Cia non ha mai evocato Mosca, limitandosi a osservare: «Quando sarà determinato chi è il responsabile di queste operazioni, allora si aprirà una discussione ai livelli più alti del governo su quale iniziativa intraprendere».