la Repubblica, 31 luglio 2016
Olimpiadi, anche gli inni si sfidano
L’estate è la stagione degli inni, su questo non c’è dubbio, soprattutto quando lo sport si addensa in sequenze fittissime come quella di quest’anno tra Coppa America, Europei di calcio, Olimpiadi. Un trionfo di bandiere, marce e melodie maestose. Tutto molto familiare, perfino rassicurante, in un periodo di così forte instabilità. Ma molto probabilmente di questi più o meno noti simboli di identità nazionale, sappiamo molto poco. Di sicuro i due modelli incontestabili sono God Save the Queen e la Marsigliese: solennità, autorità, carisma il primo, incitamento, afflato ideale il secondo. Il primo ci fa sentire orgogliosi e commossi di appartenere a quella nazione, il secondo ci fa partecipi di un grande ideale, ci vuole attivi e militanti nella battaglia per difendere libertà, eguaglianza, fraternità. Più o meno su queste due idee, si sono attenuti i governanti per decidere gli inni nazionali, diffusi in tutto il mondo a partire dall’Ottocento.
Ce ne sono dovunque, c’è un inno della Palestina, c’è un inno della Città del Vaticano (su musica di Gounod), ce n’è uno dedicato a Carlomagno per la piccola Andorra che nel tema sembra rendere omaggio a Francia e Spagna, le due nazioni vicine, alcuni sono stati molto tormentati e discussi come quello austriaco, originariamente scritto da Haydn poi adottato dai tedeschi e quindi imbarazzante nel Dopoguerra, spingendo gli austriaci a scegliere una musica attribuita (ma non con assoluta certezza) a Mozart. Sono stati fonte di storiche gaffe quando alla banda di turno capitava di sbagliare clamorosamente partitura. È successo alla Coppa America di quest’anno quando prima di Uruguay-Messico è partito l’inno del Cile al posto di quello uruguagio. Nel 2012 in Kazakistan dopo una gara di tiro invece dell’inno nazionale partì La vida loca di Ricky Martin. Roba da ridere ma a volte si rischiano guai grossi, come quando a Londra nel 2012 a una premiazione di hockey femminile invece dell’attuale amatissimo inno sudafricano intitolato Nkosi Sikelel’iAfrika ( Dio benedica l’Africa) è partito il vecchio inno dell’apartheid Die Stem in puro afrikaans. Anche noi italiani ne abbiamo subìte tante, visto che in
molti all’estero fanno confusione e pensano che il nostro inno sia ‘ O sole mio, o Va pensiero, o addirittura Volare, ma non certo l’inno di Mameli che qualche lieve sofferenza continua a farcela provare, malgrado negli ultimi anni da Benigni in giù abbiano provato in tanti a farci percepire la riposta, ripostissima, bellezza del nostro canto nazionale (che per inciso si intitola Canto degli italiani). Ma forse ha ragione Morricone quando dice che tutto sommato il problema è più nell’arrangiamento che nella composizione. Se c’è un lato imbarazzante nel nostro inno è quel ritmo a marcetta che poco si adatta al desiderio di stare lì ritti in piedi a scrutare l’orizzonte con orgoglio quando lo ascoltiamo sotto la bandiera. Proviamo a immaginarlo privo di quello zumpa-zumpa a cui è condannato, più lento, con tono maestoso, e forse ci apparirebbe come d’incanto più bello.