la Repubblica, 31 luglio 2016
Nell’atelier di Yves Saint-Laurent che sta per diventare un museo
Le spighe di grano portafortuna, un piccolo leone in pietra, il suo segno zodiacale, le miniature di bulldog francesi che chiamava tutti “Moujik”, la collezione di vecchie canne da passeggio appartenuta a Christian Dior, una foto di Catherine Deneuve, un’altra di Silvana Mangano con dedica “Comportatevi bene”, il ritratto del pittore Bernard Buffet. Le matite per disegnare, sempre le stesse: Staedtler 2B. Il camice bianco da lavoro appoggiato sulla sedia nera dal design scandinavo. I grandi occhiali sul tavolo. Una mano d’argento usata come fermacarte. Tutto è rimasto come allora, quando nel 2002 Yves Saint Laurent ha presentato l’ultima collezione primavera-estate, facendo calare il sipario su quasi mezzo secolo di carriera. Dietro le quinte, ogni idea prendeva forma nell’ampio atelier con moquette bianca, uno specchio immenso, rotoli di tessuto ovunque, pareti riempite di libri d’arte. Una stanza ovattata dove quattro volte l’anno si compiva una sorta di rito alchemico tra sogno e materia. “Monsieur Saint Laurent” è arrivato nel 1974 nell’hôtel particulier dietro all’Arco di Trionfo, tra marmi e boiserie in stile Secondo Impero, lasciando la prima sede della maison al 30 bis di rue Spontini, diventata troppo piccola. Per dive e regine di mezzo mondo l’indirizzo è stato per decenni 5 avenue Marceau. Dopo la morte di Saint Laurent, nel 2008, la palazzina è rimasta ferma nel tempo. Un santuario su cui veglia il vedovo e mecenate Pierre Bergé. «Non vorremmo farne un mausoleo, ma un posto vivo e aperto», racconta adesso Laurence Neveu, una delle ultime sartine della maison, ora conservatrice dell’immenso archivio della Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent. La palazzina è in corso di ristrutturazione. Dall’anno prossimo la casa del più famoso stilista francese diventerà un museo, replicato nella sua altra storica dimora al Jardin Majorelle di Marrakech.
In un angolo dell’atelier parigino al primo piano sono appese le “tele”, prototipi, canovacci da correggere anche decine di volte prima di dare il via libera ai laboratori di fabbricazione, che si trovavano al piano superiore. Nel salon de couture si svolgevano le prove generali prima delle sfilate in compagnia di Loulou de la Falaise e della direttrice Anne-Marie Muñoz, inseparabili compagne di Ysl. Lo stilista non perdeva mai la calma, lui che ha coniato la scritta “Love” come un mantra. “È un mestiere in cui non sei veramente libero”, aveva confessato una volta. “Puoi essere tradito da una sarta, da un mannequin, dal tessuto”. Maniaco del controllo, preparava una sorta di sceneggiatura, le planches, grandi fogli su cui appuntare la sequenza di apparizione dei modelli, il nome della modella prescelta, un campione del tessuto di ogni abito e tutti gli accessori.
Negli anni Sessanta, Saint Laurent aveva cominciato a scrivere su alcuni pezzi della sfilata la lettera “M”. Significava: per il futuro museo. «Ha avuto presto la voglia di conservare la sua opera», ricorda Laurence Neveu portandoci al secondo piano dove oggi lavorano restauratrici specializzate nella protezione di tessuti fragili come organza, pizzo, mousseline di seta, lamé. Passata una porta blindata si entra in uno degli archivi di moda più grandi del mondo: oltre seimila capi appesi in armadi nei quali la temperatura è tenuta costante tra diciotto e venti gradi, umidità al cinquanta per cento. L’accesso è riservato a chi indossa guanti, sovrascarpe, camice protettivo per scongiurare la contaminazione di tarli o altri parassiti. Ogni abito esposto in una mostra all’esterno deve passare una quarantena dentro a sacche senza ossigeno prima di tornare nell’archivio blindato. Un patrimonio di valore non sono culturale. Alcuni abiti sono stati venduti all’asta a cifre superiori ai centomila euro.
Qui Saint Laurent creò la donna moderna. Sulle stampelle la giacca caban dei marinai, lo smoking, il tailleur pantalone, il trench coat dei militari, la sahariana che usavano i cacciatori del safari. «Ha dato alle donne i simboli del potere maschile», ricorda la sartina, ora guardiana di questo tempio.
Il debutto fu la collezione Trapèze, gennaio 1958 per Dior. Aveva solo ventuno anni. Lo stilista nato a Oran, in Algeria, nel 1936 era cresciuto in un gineceo, tra sorelle, zie, nonne, venerando la madre Lucienne, donna frivola e mondana, al centro di una città allora cosmopolita e colta. Il piccolo Yves Mathieu sognava di disegnare costumi di scena per il teatro, una passione che lo accompagnerà per il resto della vita. Nel futuro museo si potranno vedere i collage inventati quando era bambino, ritagliando fotografie di modelle e rivestendole come bambole di carta. Nel 1952 immaginava già il catalogo della sua maison in place Vendôme. Quando era ancora al liceo, aveva mandato a Vogue France una lettera con alcuni bozzetti. “Prima fai la maturità”, rispose Michel de Brunhoff, direttore della rivista. Il giovane Saint Laurent si era ripresentato qualche anno dopo, appena diplomato, nella capitale francese. Era tornato a bussare alla porta di Vogue. Brunhoff restò colpito dalla precisione dei suoi disegni e da uno stile molto vicino al più famoso stilista dell’epoca: Christian Dior.
Saint Laurent è diventato così il “Petit Prince” della haute couture, per la sua precoce maestosità. “Una gazzella con gli occhiali” scrisse di lui Dino Buzzati. Se non fosse stato per la guerra d’Algeria, forse lo stilista sarebbe rimasto a disegnare abiti Dior. Ma dopo essere stato richiamato nell’esercito, cadde in depressione e venne ricoverato all’ospedale militare, subendo elettrochoc, camicie di forza, narcolettici. Pierre Bergé, che lo aveva incontrato due anni prima, andava a trovarlo tutti i giorni in ospedale. «Dior ti ha licenziato». «Non importa, faremo la nostra maison», rispose Saint Laurent. La coppia regnerà sul mondo della moda per quarant’anni. Yves il genio creatore, Pierre il raffinato stratega.
Nonostante le sue crisi di depressione, i suoi eccessi, “Monsieur Saint Laurent” frequentava ogni giorno la maison. Molti stilisti del marchio, venduto nel 1999 al gruppo Kering, sono arrivati in pellegrinaggio nell’atelier per consultare gli archivi in cerca di ispirazione. «L’unico a non essere mai venuto è Tom Ford», nota Laurence. Nello sterminato guardaroba ci sono le collezioni ispirate da artisti, la prima dedicata a Mondrian, poi quelle per Picasso, Matisse, Cocteau, Braque, Van Gogh, Apollinaire. Un reparto conserva molti costumi di scena. Saint Laurent ha lavorato, tra gli altri, con Buñuel e Truffaut. Il tailleur nero e giallo di Isabelle Adjani nel film Subway. Gli stivaletti di Jane Birkin. Il vestitino nero indossato da Catherine Deneuve nella scena finale di Bella di Giorno. Tra lo stilista e l’attrice c’è stato un connubio durato fino alla fine, Deneuve era sul podio all’ultima sfilata.
Saint Laurent aveva meditato a lungo il suo addio. Nell’atelier la magia non si ripeteva più. E forse il mondo intorno era troppo cambiato. Temeva di essere superato nell’era dei fashion stylist, lui che odiava la moda e credeva solo nello stile.