la Repubblica, 31 luglio 2016
«La felicità non è un divano. Non siamo venuti al mondo per “vegetare” ma per lasciare un’impronta». L’appello ai giovani di papa Francesco
«Dio, tocca i cuori dei terroristi». Quando il Papa va all’altare, mette gli occhiali leggeri e pronuncia questa frase, i fedeli nella chiesa di San Francesco, si guardano fra loro. Sanno bene il perché. Il Pontefice argentino ha voluto legare, qui, a Cracovia, nel luogo sacro intitolato a colui che ha scelto come nome e tutore, le tragedie del terrorismo attuale con quelle passate nella sua lontana terra sudamericana. E in un incrocio perfetto le ha unite ai martiri polacchi.
Sorprende sempre, Bergoglio. In questa chiesa si venerano le reliquie di due francescani, Zbigniew Strzalkowski e Michal Tomaszek, uccisi in Perù dai guerriglieri di Sendero luminoso il 9 agosto 1991, e da lui beatificati nel 2015 assieme al sacerdote italiano Don Alessandro Dordi. Francesco legge la preghiera, e poi la depone scritta, a ricordo: «Tocca il cuore dei terroristi, affinché riconoscano il male delle loro azioni e tornino sulla via della pace e del bene, indipendentemente dalla religione, dalla provenienza, dalla ricchezza o dalla povertà».
È la sera della veglia, nella città polacca ospite della Giornata mondiale della Gioventù. E il Papa coglie l’occasione per rivolgersi direttamente al milione di ventenni accorsi da tutto il mondo. Per le vie attorno alla piazza del Rynek, il centro di Cracovia, le bandiere della Repubblica popolare di Cina si mescolano a quelle del Cile, le strade sono un rutilante vociare di lingue diverse, e l’allegria contagia i volti e i cuori.
Francesco torna al tema evocato in chiesa: «Quando la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua “sorella gemella”, la paralisi; sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, sognare, creare, guardare orizzonti, in definitiva vivere, è uno dei mali peggiori che possono capitare nella vita. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, di sognare insieme, di camminare con gli altri. Niente giustifica la guerra, sparge il sangue del fratello».
Poi però, al Campus Misericordiae posto alla periferia, è chiaro che vuole scuotere le menti dei giovani. Come sa fare lui, con energia, un sorriso, e parole che sanno di nuovo. «Ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer). Ma quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte, sentiamo l’invito a coinvolgerci» Li guarda, li ferma con una mano e li sciocca ancora con un’immagine diversa: «Nella vita c’è una paralisi pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la felicità con un divano! Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Ma non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta».
I giovani lo guardano a bocca aperta. Lui continua imperterrito. «La “divano-felicità” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più; perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi. Ma se ci metti il meglio di te, il mondo sarà diverso, è una sfida. Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Accetta solo giocatori titolari, non riserve». Nello slancio finale, il Papa invita tutti a stringersi in un «grande ponte fraterno». E «possano imparare a farlo i Grandi di questo mondo, ma non per fotografia». Poi, a ognuno: «Ci stai a lasciare la tua impronta nella storia?». I ragazzi di Cracovia gli rispondono compatti, accendendo nella notte un milione di lumini.