Libero, 1 agosto 2016
Gino Paoli non verrà processato per evasione, la procura ha chiesto l’archiviazione
C’è chi per un guaio con il Fisco si uccide, c’è chi paga e c’è chi ne esce senza macchia. Gino Paoli appartiene alla terza di queste categorie. Il reato di evasione fiscale viaggia verso prescrizione sicura. Soldi in nero, denari portati in Svizzera, magari con un valigino, come un Alfredo Rossi qualsiasi di sordiana memoria. Compensi che il cantante ed ex deputato del Pci aveva incassato sottobanco per esibirsi alle feste dell’Unità. Compagni che evadono, da qualsiasi punto di vista si guardi la storia.
Una vicenda esplosa nel febbraio dello scorso anno, quando si scoprì che l’allora presidente della Siae aveva trasferito due milioni di euro oltreconfine. Lo scorso aprile Paoli iniziò a trattare con l’agenzia delle Entrate per chiudere la «pratica» con un versamento da 800mila euro, l’equivalente di ciò che avrebbe dovuto alla collettività, ovvero a noi. Ma non servirà neppure questo, la pendenza sarà parecchio ridimensionata. Già, perché il sostituto procuratore di Genova, Silvio Franz, ha chiesto il proscioglimento di mister Questione di sopravvivenza. Cioè, i milioni in Svizzera c’erano davvero, questo è certo come il Sapore di sale, ed è altrettanto certo che parte di quei denari provenissero dalle feste di partito. Ma siccome non si può stabilire con assoluta certezza quando quel tesoretto fu prima accumulato e poi esportato nei Cantoni, contro il cantore Paoli non si può procedere.
Chi ha seguito la vicenda sa che il paroliere de La Gatta, assistito dall’avvocato Andrea Vernazza, si è difeso bene. Con abilità e costrutto. Le premesse, per lui, non erano affatto delle migliori: fu intercettato mentre si confessava con un commercialista genovese, Andrea Vallebuona, che da lì a poco sarebbe finito in cella per altri malaffari. Al commercialista, Paoli disse chiaro e tondo: «Vorrei riportare in Italia dalla Svizzera due milioni, perlopiù ricevuti in nero alle feste dell’Unità». «Non voglio si sappia che ho portato soldi all’estero. Sono un personaggio pubblico, non posso rischiare questo. Ho un’immagine da difendere…». In quel colloquio fece riferimento in modo generico «al 2008». Non sapeva che il commercialista – al tempo consulente di Banca Carige e invischiato in un’inchiesta su una serie di compravendite immobiliari tra Italia e Svizzera – era «infestato» dalle cimici degli investigatori. Alla chiacchierata con Vallebuona che diede il là al caso era presente anche Paola Penzo, la moglie di Paoli. In mano reggeva le carte dei vecchi pagamenti in nero, e disse: «Queste le nascondiamo in un luogo sicuro». Il commercialista la tranquillizzò: «Vedremo di trovare il modo».
C’era ciccia a sufficienza per un avviso di garanzia, che fu notificato il 19 febbraio 2015. Paoli, travolto dalla vicenda, annullò qualche concerto, si dimise dalla Siae, incassò la difesa dell’amico Beppe Grillo (difesa che fece saltare la mosca al naso al popolo delle Cinque Stelle) ed iniziò a pensare a come uscirne. Il cantautore spiegò che alla Festa dell’Unità così fan tutti, «è un sistema diffuso», e precisò che non era lui a gestire «in prima persona» le quisquiglie finanziarie. Dimostrò poi di aver effettuato parecchie operazioni sul conto elvetico ben prima del 2008: impossibile, dunque, fissare proprio in quell’anno la «dichiarazione infedele». E il 2008 è il termine ultimo affinché non intervenga il non luogo a procedere, la prescrizione chiesta dal pm e che a breve, con certezza quasi assoluta, verrà cristallizzata. Per inciso, si tratta dello stesso «2008» che Paoli ventilò nel colloquio intercettato col commercialista. Ma una mezza frase, è ovvio, non basta per avere certezze.
Di sicuro, oggi, c’è che Gino Paoli sa Come si fa, giusto per togliersi il vezzo di infilare nel testo il titolo di un altro dei suoi brani più celebri. Come si fa a lasciarsi alle spalle una brutta storia senza pagare nulla, se non il prezzo – piuttosto veniale, rispetto ai soldoni – di chi ancora per qualche tempo questa vicenda se la ricorderà.