Il Messaggero, 1 agosto 2016
Anche gli italiani hanno fatto la storia del jazz. Vedi Nick La Rocca, figlio di un ciabattino di Salaparuta
Il jazz è musica bastarda, frutto illegittimo di incroci di razze e suoni, cresciuto nei bassifondi, diventato adulto nei locali oscuri. Eppure è la colonna sonora del Novecento, originale e avventurosa, serbatoio di riferimento di linguaggi ultrapopolari come il pop e il rock. Anche la sua età è incerta. Perfino sulla sua esistenza ci si è cominciati a interrogare solo dagli anni 30 e, a studiarlo davvero, solo dagli anni 60. Un fatto è sicuro, il primo documento sonoro che ne certifica la presenza risale a cento anni fa. Il 26 febbraio del 1917, negli studi della Victor (compagnia lanciata dai successi di Caruso), la Original Dixieland jazz band registrò due brani, Livery stable blues e Dixie jazz band one step. La band, un quintetto, era guidata da un cornettista ventisettenne, Nick La Rocca, figlio di un ciabattino di Salaparuta che aveva fatto parte della fanfara dei bersaglieri del generale Lamarmora. Nella OJDB c’era anche un altro siciliano: il batterista Tony Sbarbaro.
LA J CANCELLATAMentre dall’Europa arrivavano ancora i bagliori lugubri della Grande Guerra, l’America fu conquistata dalla verve sfrontata di quei pezzi, trasformati in hit della discografia con oltre un milione di copie. La Rocca diventò una star della nuova musica (la band l’anno successivo suonò al Ballo della vittoria di Re Giorgio d’Inghilterra). Per la verità, inizialmente aveva adottato la dizione jass. Solo che sui poster c’era chi si divertiva a cancellare la lettera j, lasciando solo ass (che, in inglese, sta letteralmente per culo). Scherzi a parte, resta il fatto di una formazione guidata da un italiano che certifica l’esistenza di una genere attribuito, da sempre, alla cultura afroamericana. Invece, il primo disco di un musicista nero è solo del 1921: Ory’s creole trombone della Sunshine orchestra di Kid Ory e Armstrong sarebbe entrato in studio solo nel 1925.
L’ECONOMIAIl razzismo ha avuto il suo peso, però, quando verrà celebrata la ricorrenza, non si potrà fare a meno di accendere la luce su un aspetto sottovalutato: il contributo italiano a quell’idioma così rivoluzionario (e forse non è un caso se oggi proprio il jazz italiano gode di così tanta riconoscibilità). Un contributo legato al clima particolare di una città che, fra la fine dell’800 e i primi del 900, teneva a stretto contatto la popolazione di ex schiavi e gli immigrati europei, con i numerosi italiani, specie siciliani. I motivi sono vari: New Orleans era una delle città più ricche degli Stati Uniti e la più europea (Talleyrand aveva venduto la Louisiana agli americani all’inizio dell’800), aveva un porto floridissimo, settimanalmente partivano navi da Palermo che, all’andata, portavano limoni e emigranti e, al ritorno, balle di cotone destinate a Genova (dove poi si sarebbero trasformate in jeans). Insomma, era luogo privilegiato nelle rotte dell’emigrazione crescente: per clima, tipo di lavoro (la pesca), ma anche per le chances musicali che offriva il suo teatro dell’opera.
Gli italiani erano ben presenti nella comunità musicale, quella ufficiale (molti musicisti vennero ingaggiati nella French opera) e nelle piazze, nei parchi, nei picnic, nei funerali, nelle parate. Lo erano loro con i loro strumenti e le melodie prepotenti delle arie di Puccini, Verdi, Mascagni: «A quel tempo si poteva attraversare la città incrociando senza distinzione ogni tipo di musica: ragtime, opera, blues, musica caraibica» racconta Gary Giddins, uno dei più acuti musicologi americani. Nick La Rocca, dopo quel primo grande successo (poi ribadito dal celeberrimo Tiger rag) perse un po’ la testa, trasformandosi in una figura tragica: formidabile intrattenitore, spesso oltre le righe, andava in giro definendosi creatore del jazz, attirando irritazione fino ad essere emarginato, quasi cancellato dalla storiografia e, per converso, trasformandosi, dopo una crisi nervosa e l’abbandono delle scene, in un paradossale paladino dell’origine bianca del jazz.
A cent’anni di distanza, il suo ruolo di divulgatore però comincia a essere rivalutato, non solo per le statue (a Salaparuta, a Palermo, nel Louisiana state museum): c’è un documentario di Renzo Arbore, Da Palermo a New Orleans. E fu subito jazz, un film presentato al Taormina festival, Sicily jass, libri (come quello di Claudio Lo Cascio e l’americano Be bop, swing and Bella musica). Ma la presenza italiana nella storia di questa musica non si limita a La Rocca.
LA LISTAL’elenco è imponente e arriva fino a oggi. Va, scegliendo alcuni nomi, da Giuseppe Alessandra che divenne Joe Alexander, basso tuba, a Giorgio Vitale noto come Papa Jack Laine, a Leon Roppolo, altro salaparutese, a Joe Venuti il primo violinista, a Eddie Lang (Salvatore Massaro) il primo chitarrista. Fino a Louis Prima, Joe Pass (Passalacqua), i fratelli Candoli, Jimmy Giuffre, Lennie Tristano, Tony Scott (Sciacca), Pat Martino, Chuck Mangione, Joe Lovano, Chick Corea, Frank Rosolino, Buddy De Franco, Louie Bellson (Balassone), Steve Gadd, Tony Mottola, Flip Phillips (Filippelli), John Patitucci. E comprende grandi divi: da Sinatra a Tony Bennett. Il jazz non è italiano, ma anche gli italiani hanno fatto il jazz.