Corriere della Sera, 1 agosto 2016
In “Anna Karenina” le donne dominano la scena, ma i personaggi maschili sono indimenticabili. Einaudi pubblica una nuova traduzione del capolavoro di Tolstoj
L’anima femminile del mondo attraversa ogni pagina, ogni riga, e riempie ogni spazio di Anna Karenina: il capolavoro di Lev Tolstoj che possiamo rileggere nella nuova e ottima traduzione di Claudia Zonghetti pubblicata da Einaudi. Le quattro principali figure maschili del romanzo – Oblonskij, Vronskij, Levin e Karenin – così diverse fra loro, ci appaiono come meravigliosamente compiute, e indimenticabili. Ma sono le donne, e non solo Anna e Kitty, nelle quali l’anima femminile si incarna con maggiore prepotenza, tutte le donne che in qualche modo partecipano alle due vicende sentimentali e sociali contrapposte al centro del racconto – l’adulterio e il matrimonio «giusto» – a dominare la scena e a indirizzare gli eventi. Anche quando subiscono gli oltraggi maschili, si mostrano fragili e indifese, sgomente dal comportamento degli uomini, o sono sconfitte. Loro – le contesse intriganti e pettegole che animano i salotti di Mosca e di Pietroburgo, le balie fedeli e scontrose, le istitutrici sciocche, Anna e Kitty, le sorelle, la prostituta che accompagna il fratello di Levin alla morte, l’ostetrica che fa nascere il figlio di Levin e di Kitty («Fra le braccia esperte di Lizaveta Petrovna rifulgeva tremula come la fiamma di una candela la vita di un nuovo essere umano che prima non c’era»), la principessa madre che ha assistito al parto tremando, alla quale Kitty chiede: «È proprio vero, maman?», le giovani contadine gioiose e impertinenti – prospettano un confine che è simile a un grembo primordiale, nel quale ogni forma di saggezza è custodita, ogni passione è accolta, ogni timore senza nome è vissuto. E gli uomini? Dove sono?
Il romanzo, come molti sanno, inizia con lo strepitoso risveglio (nel divano dello studio) di Stipa Oblonskij, marito di Dolly (sorella di Kitty), colto in flagrante dalla moglie con la signorina francese dei figli: la casa è una baraonda, ma lui quasi non si ricorda cosa è successo. Oblonskij – personaggio nei cui confronti Tolstoj nutre una indiscutibile simpatia – è un uomo futile, un bon vivant amante delle ostriche e dello champagne, un rubacuori senza pensieri, dedito ai piaceri dell’esistenza. Quando lo sciocco sorriso che ha sulle labbra svanisce, e si rende conto del pasticcio che ha combinato (e per porre rimedio al quale, ha deciso di far venire a Mosca sua sorella, Anna Karenina, da Pietroburgo), si precipita in camera da letto a chiedere per l’ennesima volta perdono. Dolly, la moglie non bella, con le sue trecce smunte, provata dalla sequela dei tradimenti e dalle gravidanze, non lo vorrebbe vedere mai più. Lui, tra i singhiozzi, ha l’infelice idea di dirle: «È stato solo un momento... di passione...». Lei gli urla: Vattene. Lui si veste e scappa in ufficio.
Lì, poco dopo, arriva dalla campagna un suo vecchio amico, Levin: «Un tale ben piantato, largo di spalle, con la barba crespa, e il berretto di montone». Levin, che non è sposato e concepisce l’amore solo all’interno del matrimonio, è innamorato da sempre di Kitty Scerbackij ma si sente inadeguato e brutto rispetto a lei che, ai suoi occhi, incarna la perfezione femminile. Oblonskij, che intanto si è ripreso alla grande, lo invita a pranzo all’Angleterre. Questo pranzo, con le pellicce al guardaroba, la vodka e i vari antipasti, le leccornie ordinate al cameriere tartaro, i saluti ai commensali negli altri tavoli, è semplicemente favoloso. I due amici (due esseri agli antipodi, eppure accomunati da un fondo di generosità naturale) mangiano, bevono, discutono di amore carnale e amore spirituale, poi, finalmente Oblonskij comunica a Levin che Kitty, sua cognata, alle cinque sarà alla pista di pattinaggio, e lo incoraggia a presentarsi. Levin va; e subito, al centro della pista circondata dalle betulle con i rami piegati dalla neve, la vede: sa che è lei per la felicità e la paura che gli stringono il cuore.
Kitty ha diciotto anni, è al suo primo anno in società. Chiunque balla con lei – come succedeva per Natalja Nikolaevna, la moglie di Puskin – se ne innamora. Kitty, «con quella testolina bionda posata su spalle già incantevoli, con il fascino di un viso che conservava la bontà e il candore dell’infanzia», è l’immagine della purezza virginale e, nello stesso tempo, dell’ansia amorosa, del segreto muliebre riflesso negli occhi calmi e sereni, nell’incantevole sorriso. Dopo qualche giro insieme, sottobraccio, sul ghiaccio – durante il quale lui, goffo, si lascia scappare una frase che non doveva dire («Anch’io sono più sicuro quando vi reggete a me») che in quegli occhi sereni fa trascorrere un’ombra – e dopo un giorno di tormento, Levin si presenta dagli Scerbackij e le chiede di sposarlo. Il cuore di Kitty, che ha battuto all’impazzata tutto il pomeriggio, si colma di gioia, ma appena pensa a Vronskij, l’effetto svanisce. «Non posso, perdonatemi», risponde. Lui le dice: «Non poteva essere altrimenti». Pochi secondi più tardi, nel salotto, entrano la principessa madre (contraria al matrimonio con Levin e favorevole a quello con Vronskij) e Vronskij stesso. Kitty ha gli occhi pieni di lacrime. Cosa le rimorde? Di aver fatto girare la testa a Levin o di averlo rifiutato? «Signore, aiutami, aiutami Signore», sussurra la sera, prima di abbandonarsi al sonno.
Vronskij – che il padre di Kitty non ama, considerandolo il tipico damerino pietroburghese – è ricchissimo, giovane, bello. Al matrimonio non pensa affatto: segue soltanto il piacere della seduzione. E, sfoderando i bei denti che Tolstoj per tre volte descrive «compatti», sorride spesso. Con Anna, attesa dal fratello, si incontra alla stazione, dove è andato a prendere sua madre. I due si guardano. Puskin diceva che dal marchio distingueva i cavalli focosi, dagli occhi i giovani innamorati. Negli occhi grigi di Anna che le folte sopracciglia fanno sembrare più scuri, le emozioni splendono senza che lei possa evitarlo. Lui, ha colto nel suo viso una tenerezza e una dolcezza tutte particolari. Intanto, un uomo ubriaco è finito sotto un treno. È un brutto segno.
A casa, Anna consola la povera Dolly. Arriva Kitty, che rimane folgorata dalla sua bellezza. Arriva Vronskij e di nuovo viene scambiato uno sguardo pieno di imbarazzo e timore. Dai Bobriscev – dice Dolly – ci sarà un grande ballo e Anna, che non ama ballare, acconsente di andarvi. Kitty ha un abito di tulle foderato di seta rosa, con delle roselline e un nastrino di velluto attorno al collo. Anna, un abito nero con la scollatura profonda che mette in evidenza il seno, le spalle piene e tornite come l’avorio antico. Vronskij non guarda più Kitty. Kitty capisce tutto e si dispera. Ma pure Anna, nonostante sia ebbra di felicità, ha il cuore stretto dalla disperazione. E il giorno dopo, per allontanare le tentazioni, decide di tornare a Pietroburgo. In treno legge un romanzo inglese, ma è sconvolta; i suoi pensieri turbinano come la neve che cade nel buio della notte. E sul treno scopre che c’è Vronskij. «Ignoravo che doveste partire», gli dice, mentre un lampo di esultanza le brilla negli occhi. Lui le risponde: «Sono qui per voi». Alla stazione di Pietroburgo Karenin sta aspettando sua moglie.
Karenin, venti anni più di Anna, alto fu nzionario dello Stato ligio al dovere, alle regole, soprattutto quelle del conformismo sociale, è un uomo algido, tragicamente arido, incapace di donarsi e di amare, molto simile al signor Dombey di Dombey and Son di Charles Dickens. Quando se lo trova di fronte, con le orecchie a sventola che le sembra di vedere per la prima volta, e il viso grigiastro, e ascolta il falsetto della sua voce monotona e stridula, Anna capisce che, da quel momento, le mura della sua casa saranno una prigione.
Con il triste Karenin, il quadro dei personaggi di Anna Karenina è completo. Anche la trama del romanzo – una trama che qualcuno ha osato definire non perfetta per il suo doppio binario, e invece è perfettissima, gestita nei tempi, e nei necessari intervalli in cui appaiono altri personaggi e si parla di tutto: di politica, di religione, di ingiustizie sociali, di adulteri, in modo magistrale – è pronta per il suo soffocante sviluppo. Anna ama Vronskij, lui ama lei, lei odia Karenin e presto gli comunicherà il suo amore colpevole, scoppierà lo scandalo, le sarà impedito di vedere il figlio, rimarrà incinta, diventerà una «donnaccia» emarginata che non può nemmeno andare a teatro e però è imperdonabilmente, quasi selvaggiamente felice. Nella tenuta di campagna in cui Levin e Kitty sono andati a vivere dopo la reciproca dichiarazione d’amore scritta con i gessetti sul panno verde di un tavolino da gioco e dopo il matrimonio, Kitty, che non è più la ragazzina col cuore in subbuglio, ingannata e poi pentita, bensì una donna fatta, sicura e forte, è la salda padrona della loro vita, l’amministratrice della casa, la madre gioiosa e incredula e, soprattutto, la compagna attenta, soccorrevole di un uomo che ancora si sente una povera cosa, ama la natura, vorrebbe la giustizia, non capisce nulla, non crede in Dio.
Le due realtà si contrappongono. Ma Anna, ormai, è devastante. I suoi odi, i suoi pentimenti, la sua colpa, il suo amore sfrenato, il suo terrore che non sia corrisposto, travolge tutto, ogni altro ostacolo narrativo, travolge Vronskij (che non è affatto un damerino), travolge la sua mente fino al delirio e alla decisione di morire, sotto un treno. Il treno arriva, lei lascia passare un primo vagone, pensa: punirò lui e sarò libera, libera da tutti e da me stessa, e si butta. «Oh Dio! – esclama all’ultimo istante – Che cosa sto facendo? Dove sono?». Poi è la morte. Che Tolstoj descrive così: «E la candela accanto alla quale Anna aveva letto il suo libro di ansie, inganni, dolore e rabbia brillò di una luce vivida, più vivida che mai, rischiarando quanto prima era avvolto nelle tenebre. Poi crepitò, tremula, e si spense per sempre».
Il libro, infatti, con lei è finito. Di Levin, sapremo che continuerà a cercare la giustizia degli uomini e il Dio in cui non crede. Di Vronskij, sapremo che andrà a cercare la morte in guerra. Di Karenin, questa grandiosa e assai complessa figura di misero, l’altro vero martire del romanzo, non sappiamo più nulla.