Corriere della Sera, 1 agosto 2016
«C’è un non so che di rotto nel mio cervello». Vincent Van Gogh trovava la forza nel fratello Theo
È il 10 luglio 1890 quando Vincent van Gogh, da Auvers-sur-Oise, dove si è stabilito in una pensione dopo aver lasciato il manicomio di Saint-Rémy, scrive al fratello Theo di aver completato tre nuovi paesaggi: «Sono immense distese di campi di grano sotto cieli nuvolosi, in cui ho cercato deliberatamente di esprimere tristezza, estrema solitudine».
Il fratello è diventato padre da qualche mese e Vincent non esita a manifestargli il suo calore, confrontando la felicità di Theo con la propria malinconia: «Penso spesso al bambino, credo che sia certamente meglio allevare figli che spendere tutta la propria energia nervosa a fare quadri, ma che volete?, ora sono, o almeno mi sento, troppo vecchio per tornare sui miei passi o per avere voglia di qualcos’altro».
Scriverà ancora tre lettere: una alla madre e alla sorella Anna, due ultime al fratello Theo e domenica 27 luglio, nel pomeriggio, van Gogh, che si è avviato in un campo per lavorare portando con sé la pistola, si spara in direzione del cuore senza cogliere il bersaglio. Riesce a raggiungere casa, ferito, dove viene soccorso dal dottor Gachet (quello del famoso ritratto «straziato»), che dopo averlo medicato avverte il fratello. Theo arriva il mattino dopo da Parigi e Vincent lo accoglie dicendo: «L’ho fatto per il bene di tutti, ho mancato il colpo ancora una volta». La sera il fratello scrive a sua moglie Jo: «È stato molto contento che sia venuto e siamo sempre insieme... Poveretto, ha avuta ben poca felicità e non gli sono rimaste illusioni. La sua croce si fa molto pesante, a volte; si sente tanto solo». Van Gogh passa le sue ultime ore seduto sul letto a fumare la pipa, verso le due di notte del 29 dice a Theo: «La tristezza durerà comunque tutta la vita. Ora desidererei ritornare» e dopo quelle parole enigmatiche muore.
La vita di Vincent si sviluppa nel dialogo epistolare con il fratello (668 in quindici anni). Si direbbe che van Gogh abbia continuato a scrivere a Theo per vincere la malinconia. Oppure, al contrario, che abbia vinto la malinconia per poter continuare a scrivere al fratello: «Se non avessi Theo, mi sarebbe impossibile dedicarmi al mio lavoro; ma poiché mi è amico farò ancora progressi e continuerò». Le due vite coincidono quasi: Theo nasce quattro anni dopo Vincent, nel 1857, e muore sei mesi dopo di lui, già malato da tempo, il 25 gennaio 1891, dopo una vita da mercante d’arte in una galleria parigina di Montmartre.
Nel pomeriggio in cui si è sparato, Vincent aveva in tasca l’ennesima lettera, non conclusa, per il fratello: lo ringrazia per i 50 franchi che gli ha inviato, sembra un poco farneticare, poi esprime un pensiero lucidissimo: «È vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri». Fa un bilancio sincero del suo modo di intendere l’arte: «Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita...».
Le sue lettere, spesso accompagnate da disegni, sono – ha scritto Cynthia Saltzman (introduzione al Millennio Einaudi che raccoglie tutto l’epistolario) – «dispacci dal fronte, resoconti di campagne artistiche, appunti presi sul campo». Il fratello è il pozzo di san Patrizio in cui tutto viene rovesciato: le sperimentazioni, gli abbozzi, i progetti, le instabilità, le meditazioni metafisiche, le angosce, i ripensamenti, le accensioni visionarie, le ricadute nella malattia oscura: schizofrenia, malinconia depressiva o epilessia psicomotoria aggravata dall’abuso di assenzio (come sostiene Jean Starobinski)?
È il settembre 1889 quando van Gogh confessa al fratello: «Durante la crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza, più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi, ed è forse questa viltà morale che, mentre prima non mi faceva provare nessun desiderio di guarire, ora mi fa mangiare per due (...). Insomma in questo momento io cerco di guarire come uno che, avendo voluto suicidarsi e avendo trovato l’acqua troppo fredda, cerca di riguadagnare la riva».
Le lettere a Theo contengono, ravvicinati, il più e il meno, il chiaro e lo scuro, il bene e il male, il dritto e il rovescio, pennellate rapidissime del pensiero, apparentemente incoerenti, improvvisate, confusione e lucida autoconsapevolezza: «C’è effettivamente un non so che di rotto nel mio cervello».