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 2016  agosto 01 Lunedì calendario

«In America non hanno messo la password?»

Che hacker russi abbiano la capacità di mettere le mani su documenti riservati presenti in vari server americani nessuno ha dubbi: l’hanno fatto in passato, in Estonia nel 2007 e in Germania nel 2015, tanto per citare i casi più recenti. «Un coinvolgimento russo è possibile e anche plausibile», sostiene lo studioso di affari internazionali Vladimir Frolov. Anche se gli uomini di Vladimir Putin hanno negato ogni cosa e il suo consigliere per l’internet German Klimenko se l’è cavata con una battuta: «Forse qualcuno in America aveva semplicemente dimenticato di mettere una password per l’accesso».
I tecnici del settore come Andrej Mosolovich dicono che gli hacker non sono ufficialmente legati ai servizi segreti ma «lavorano per loro nell’ombra». E prima di partire con i loro attacchi «preparano una leggenda per far sì che i sospetti ricadano su altri Paesi».
Tutto dunque per favorire il candidato Trump, come sostengono i democratici? A Mosca si pensa che la cosa sia un pochino più complicata. «È il vecchio gioco sovietico: un punto in meno per loro è un punto in più per noi», spiega l’analista politico Dmitrij Oreshkin. «Non si punta necessariamente a favorire un candidato, quanto piuttosto a creare caos e imbarazzo nel campo avverso».
D’altra parte, le azioni di Wikileaks e di Julian Assange hanno sempre avuto questo scopo. E Assange ha legami diretti con il Cremlino, tanto che ha avuto anche un suo show sulla tv per la propaganda di Stato RT. Anche Frolov sembra concordare con questa tesi: «I democratici sono un obiettivo secondario», dice. «Anche se la Russia non riusciva a trovare qualcosa per colpire direttamente la Clinton, hanno visto una buona arma e l’hanno usata al momento opportuno». Con il successo di Trump, «è stata individuata una finestra di opportunità, anche se poi l’establishment a Mosca ha sentimenti di apprensione per la sua inesperienza e la sua imprevedibilità». Trump, dunque, candidato del Cremlino? A questa ipotesi si dà poco credito. Tra l’altro, i legami dell’immobiliarista e dei suoi collaboratori con la Russia sono in realtà poca cosa. È vero che il suo collaboratore Paul Manafort fece da assistente al presidente filorusso dell’Ucraina, «ma Mosca lo vedeva come uno strumento di ingerenza americana e fece pressioni su Yanukovich perché se ne liberasse». Maria Lipman, analista politica indipendente, arriva a teorizzare che il tutto sia addirittura frutto di una «montatura» americana. «È lo specchio dell’abitudine del Cremlino di addossare a una fonte esterna i propri problemi». E Vasilij Gatov, esperto di media aggiunge: «Qui si incolpa Obama di tutto e i giornali americani hanno deciso di addossare a Putin l’ascesa di Trump».