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 2016  luglio 30 Sabato calendario

In morte di Marta Marzotto

Laura Laurenzi per la Repubblica
La camera ardente è già aperta.
Lei è vestita con un abito bianco lungo, ricamato in filigrana d’oro, pettinata e truccata sembra che dorma, circondata di rose bianche. «Se proprio devo morire mi auguro di farlo con una grandissima dignità». Disse che in quel momento avrebbe desiderato vicino a sé, attorno al «lettone del capo morente», i figli, i nipoti, le persone più care, ognuno con un bicchiere di champagne ghiacciato, così che la sua morte sarebbe diventata una festa: la festa definitiva, quella su cui cala il sipario. Non è andata proprio così ma quando, ieri mattina alle 7, è passata da un sonno profondo alla morte, la sua camera nella clinica la Madonnina era piena di familiari, e a tenerle la mano c’era la figlia Diamante. La notizia è stata data su Twitter dalla nipote Beatrice con uno scarno “Ciao nonita mia”. E il figlio prediletto Matteo ha voluto ricordare «la voracità verso la vita» e «l’eredità morale che lascia a tutti noi: l’ottimismo». E chissà se pensava veramente di guarire e tornare a casa, o non presagiva piuttosto la fine imminente quando, pochi giorni fa, alle infermiere del reparto aveva annunciato: «Vado via presto». Chissà se credeva davvero a quello che martedì ha detto all’amica Sandra Carraro, e cioè che intendeva scrivere un nuovo libro di memorie, a neanche un mese dall’uscita della sua autobiografia Smeraldi a colazione. Le erano venuti in mente molti altri episodi da raccontare, ha spiegato.
«Ho cercato di allargare agli altri il mio appetito di vivere – ripeteva – In cambio ho avuto anche pietre, e sono morta dentro». Un’anomala favola di Cenerentola la sua. Nasce 85 anni fa a Mortara, in Lomellina, da una famiglia poverissima. Da mondina ad apprendista sarta e poi, grazie al portamento, di colpo mannequin, e di colpo contessa. A impalmarla è il danaroso Umberto Marzotto, che la porta a vivere in una reggia: Palazzo Stucky a Portogruaro, 7mila metri quadrati. È una reggia anche la casa di Roma, in piazza di Spagna: il suo dirimpettaio è De Chirico, i suoi amici sono chiunque conti. Se Hemingway l’aveva delusa perché ubriaco ruttava a tavola, gli altri si comportano meglio: Moravia addirittura la va a intervistare; i suoi ospiti sono Fellini, Quasimodo, Ungaretti, Rossellini, Brancati, Flaiano, e poi ministri, premier, premi Nobel e Oscar, e qualche testa coronata. Il presidente Pertini le telefona quasi ogni mattina alle 8 meno un quarto. Più che regina di cuori o di danari, con il suo salotto irregolare sarà in quegli anni la testimonial più significativa della Prima Repubblica formato jetset.
A Roma, nati i cinque figli una dei quali, Annalisa, morirà di fibrosi cistica, l’incontro che le cambierà la vita: quello con Renato Guttuso. Lui è in adorazione e la contessa diventa la sua musa. In vent’anni le scriverà oltre 5mila lettere, tutte tumultuose e bellissime. Soffrirà molto il pictor optimus del Pci per i tradimenti della Marzotto, che si innamora di Lucio Magri, fascinoso, infedele, una storia che durerà ben dieci anni. Estromessa dal capezzale di Guttuso malato terminale, l’ex mondina accusa gli amici del pittore, fra cui Andreotti, di tenerlo segregato e di averlo costretto, lui ateo, a convertirsi. E getta dubbi sull’adozione, fatta sul letto di morte, di Fabio Carapezza. Alla scomparsa del pittore, gennaio 1987, lo scandalo artistico-cultural-politico è enorme: in un colpo solo la contessa perde i tre uomini amati in simultanea (Magri batte in ritirata, Umberto chiede il divorzio), e finisce quasi sul banco degli imputati: «Fui vittima di una campagna diffamatoria che dovrebbe esserci spiegata da uno studioso di storia del cannibalismo», osservò.
Il resto è cronaca recente: una parabola dorata, feste, balli, crociere spesso a sfondo benefico. “Marta da legare” risorge dalle sue ceneri, lapidata si rialza, disegna gioielli, firma parei, griffa caftani, orologi, penne, occhiali, valigie. Il successo dell’eccesso, titolo di un suo pamphlet, è temperato da un sincero tocco umano. Amici e nemici le perdonano anche frequentazioni discutibili come quella con Gheddafi. «Narcisista naturale» come la definì Moravia, fino all’ultimo, anche in clinica, è stata animata da uno sconfinato desiderio di piacere agli altri. «Io alla vita ho sorriso, lei a me non sempre», ha detto.

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Maria Corbi per La Stampa
«Se proprio devo morire quel giorno arriveranno gli scienziati della Nasa e mi squarteranno per capire il segreto della mia infinita energia». Chi la conosce sa che quel segreto è racchiuso nel suo cuore, nei suoi occhi curiosi, nella sua mente sempre alla ricerca di qualcosa. «Io guardo sempre al futuro con un occhio al passato», spiega nella sua autobiografia Smeraldi a colazione scritta assieme a Laura Laurenzi. Una vita di corsa tanto che ammette di «non avere mai avuto tempo per essere veramente felice».
Marta Marzotto che nella vita aveva affrontato dolori devastanti come la morte della figlia Annalisa senza mai farsi vincere è scomparsa ieri. «Vivo anche per lei», mi disse in uno dei nostri incontri, quando come un fiume in piena passava da un argomento all’altro, raccontando pezzi della sua storia, capitoli di un romanzo che racconta un pezzo del Novecento. L’incontro nel 1954 con il conte Pietro Marzotto fulminato dalla bellezza di questa mannequin, figlia di un casellante e di una mondina. E poi l’ascesa nei salotti buoni, tra blasoni e fortune, senza mai farsi contaminare dalla noia, dalle forme, dalla convenienza. La nobiltà del cognome Marzotto - a cui Marta teneva moltissimo - non ha aggiunto certo forza a questo uragano della natura che ha sempre vissuto come voleva, assaporando ogni minuto, cercando di dormire il meno possibile. E quando la notte non riusciva a prendere sonno chiamava l’amica Sandra Carraro per fare le parole crociate. Anche dopo aver compiuto gli 80 anni il suo stile di vita non è cambiato: viaggi, feste, progetti. La sua agenda era sempre troppo piena. «Ci ha insegnato ad andare avanti, a cercare sempre di ripartire dagli errori, dalle difficoltà con ottimismo», ha ricordato il figlio Matteo.
Negli anni 70 e 80 il suo salotto è stato crocevia di intellettuali, artisti, personalità emergenti. Si innamorò di Renato Guttuso, di cui divenne la musa. Lui le scriveva lettere piene di passione che lei ha conservato e che sono al centro di una battaglia con l’erede del maestro, Fabio Carapezza, visto che secondo la legge d’autore le lettere appartengono a chi le scrive. Carapezza le ha impedito di pubblicarle nel suo libro e adesso c’è chi dice che le rivorrà indietro.
La Marzotto viveva fuori dagli schemi, sostenendo di essere comunque stata «fedelissima al marito pur nell’infedeltà». Contraddizione? No solo il punto di vista di una donna che non si accontentava mai della banalità. E che fino alla fine è stata di una sincerità spesso crudele. Come quando nel suo libro-autobiografia parla della sua storia con Lucio Magri, durata 10 anni, che definisce «la mia buccia di banana». «Una volta gli spedii un biglietto anonimo con una frase attribuita a Trotzkj da Joseph Roth ne “La marcia di Radetzky”: “meglio morire per le masse piuttosto che viverci insieme”». D’altronde è sempre stato pericoloso fare domande a Marta Marzotto perché lei rispondeva senza filtri. Si offendeva difficilmente, anche quando Roberto D’Agostino la prendeva in giro sulle rughe: «Non avvicinarti se no me le attacchi». Lei d’altronde si piaceva così e solo una volta era inciampata in un lifting. «Un momento difficile», si giustificava.
Marta che adorava i suoi figli e i suoi nipoti, soprattutto Beatrice Borromeo, figlia di Paola, moglie di Pierre Casiraghi, che aveva seguito la passione per il giornalismo. «È come me - spiegava -. Una tosta che fa sempre di testa sua». Isabella Borromeo, altra nipote, spiega che dalla nonna ha «imparato la libertà di pensiero: con lei potevo talmente dire quello che volevo che non ci riuscivo».
E, per salutarla, tutta la sua grande famiglia era accanto a lei per accompagnarla in questo viaggio, che conoscendola sarà comunque un’avventura. 

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Paolo Conti per il Corriere della Sera
Tanti nomi, quante sono state le sue vite. Marta. Martissima. O Marta da legare, che fu anche un suo marchio di abbigliamento. O Martina, come la invocava il grande amore Renato Guttuso. Quante vite? Marta Vacondio, nata a Reggio Emilia il 24 febbraio 1931 figlia di un casellante e di una mondina, nel 1954 diventa contessa Marta Marzotto in virtù del suo matrimonio col conte Umberto, rampollo della stirpe di industriali tessili di Valdagno. Quel cognome resta il suo, anche dopo un amaro divorzio che dopo decenni chiude un complesso matrimonio in cui restano scritti i nomi dei cinque figli: Paola (la madre di Beatrice Borromeo), Vittorio Emanuele, Matteo, Maria Diamante e Annalisa, morta di fibrosi cistica nel 1989, ferita mai rimarginata nonostante i gioielli, le pellicce clamorose, i caffetani dorati, i colbacchi variopinti considerati un «must» a Cortina nei suoi migliori anni, quelli della Prima Repubblica. Marta Marzotto è l’icona di quella stagione italiana e internazionale: la Costa Smeralda, gli attici su piazza di Spagna (soprattutto quello di Marta), i palazzi di Venezia e di Milano, le Dolomiti. Il lusso.
L’equilibrio del matrimonio si altera presto, come ha raccontato nel suo ultimo libro Smeraldi a colazione , scritto con Laura Laurenzi. L’approdo a Roma le regala la lunghissima storia con Renato Guttuso, tormentata. Lui la invoca, la ritrae, le dipinge affreschi nelle case ma non dorme mai con lei perché la moglie Mimise Guttuso lo cerca anche all’ambasciata russa, dove lui finge di essere andato a cena. La loro complicità si conclude drammaticamente con l’agonia e la morte di lui nel gennaio 1987. Per settimane lei non riesce a vederlo. Il figlio adottivo del pittore, Fabio Carapezza Guttuso, assicura che sia stato l’artista a voler chiudere ogni rapporto, e con lui concordano Giulio Andreotti e il cardinale Fiorenzo Angelini, accanto a lui in quelle ore. Lei parla di sequestro di persona. Lo scontro, anche legale, prosegue dopo la morte del Maestro.
Poi c’è il capitolo Lucio Magri, comunista che ama il caviale. Guttuso si agita e soffre. Nemmeno il conte Marzotto, contitolare di un ménage matrimoniale molto libero, apprezza. Finisce male. Lei, nel libro di memorie lo liquida così: «Durò dieci anni. Diceva di amarmi. La verità è che amava solo se stesso».
Ma ridurre le tante vite di Marta Marzotto a una collezione di amori sarebbe stupidamente riduttivo. C’è la maternità, l’amore ricambiatissimo per i figli e i nipoti di sangue e acquisiti nel vasto cerchio degli allargamenti familiari. Le imprese economiche: la boutique sulla Costa Smeralda, la collaborazione con la catena «Standa». Le amicizie cosmopolite, l’incontro con Hemingway e persino col dittatore Francisco Franco, la complicità con Sandro Pertini che la invita al Quirinale e non si risparmia una carezza sulla gamba di lei. Eccessi? Tanti, sicuramente. Ma sempre rivendicati e goduti senza moralismi. Era Marta Marzotto. Da adorare o da detestare. Lo sapeva, e così voleva.

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Massimiliano Panarari per La Stampa

Un’icona di stile. Ma pure «una certa idea» della cultura italiana.
Con Marta Marzotto se ne va un modo di intendere e interpretare la vita culturale tipico della Prima Repubblica, quello fondato sulla frequentazione – e la governance – del «salotto romano». Ossia un luogo permanente di incontro tra soggetti diversi, nel quale la funzione dell’ospite-organizzatore – e, soprattutto, dell’organizzatrice, dal momento che la figura cardine era proprio quella della signora di mondo o gran dama – risulta centrale. Un lascito di quella che gli storici definirebbero sociabilità borghese, che dell’aristocrazia riproponeva alcune convenzioni stilistiche e canoni comportamentali (e lei stessa aveva acquisito un titolo nobiliare dopo il matrimonio con il conte Umberto Marzotto). 
Certo, nella fattispecie, la mondanità di matrice illuministica che ha riscritto in maniera moderna la storia dei salotti intellettuali veniva a patti con l’antropologia del generone romano e con la zoologia di taluni settori del ceto politico della democrazia dei partiti, ma gli eccessi e i panni sporchi di quella stagione appaiono quasi sobri alla luce del cafonal e del trash postmoderno dell’odierna Roma della Grande bruttezza. 
Allergica alla definizione di regina dei salotti, Marta Marzotto ne ha però svolto la funzione in un periodo rilevante per la cultura italiana e in alcune delle stagioni di maggiore effervescenza della Capitale. E lo ha fatto a modo suo, alternando per svariati decenni i ruoli di musa ispiratrice, amante, compagna di vita, amica intima o anfitriona di alcuni dei protagonisti della (più o meno dolce) vita romana. Un salotto ecumenico e trasversale il suo, com’è nel dna di questi luoghi di influenza capitolini, nel quale si ritrovavano parecchi esponenti di rilievo della classe politica e intellettuale, con una certa qual preferenza per quelli più o meno organici ai partiti della sinistra storica (da Renato Guttuso a Lucio Magri, da Sandro Pertini a Bettino Craxi). Una sinistra edonista ante litteram, per la quale valeva il motto - parafrasando le note strisce di Pericoli e Pirella - «tutti da Marta il sabato sera»; e la padrona di casa (ovvero, la «compagna bionda», come veniva chiamata alle feste de l’Unità) si faceva anche riflettore - e specchio - della tendenza a predicare bene e razzolare male che contraddistingueva un pezzo della (a parole) moralistica élite comunista e aristocrazia rossa nostrana.
Tutto, giustappunto, inconfondibilmente e inequivocabilmente in salsa Prima Repubblica, un’epoca in cui, peraltro, esisteva ancora l’opportunità di salire su quell’ascensore sociale che poteva tramutare una mondina di Reggio Emilia in una contessa.

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Silvia Truzzi per il Fatto Quotidiano
Adesso che se ne è andata – in realtà anche lungo tutta la sua vita – si affollano le definizioni: modella, stilista, musa. La più in voga è “regina dei salotti”, ma per noi del Fatto era semplicemente la “nonita” di Beatrice, anche se non aveva nulla dell’iconografia della nonna, anziana, canuta, fragile. Perché – come amava dire di sé – non aveva età. O forse perché ha attraversato la vita con quella leggerezza, spesso scambiata per superficialità, che le è costata infinite critiche. Ma il suo tratto distintivo era l’allegria.
Marta Vacondio, papà casellante delle Ferrovie e mamma mondina – era nata vicino a Reggio Emilia nel 1931. E pure lei aveva fatto la mondina in Lomellina: “Mi fasciavo le gambe per non graffiarmi con le foglie taglienti e non farmi pungere dalle zanzare”. E bene faceva a proteggere quelle gambe lunghissime, davvero mozzafiato, che si vedono nelle foto con i figli piccoli al mare. Il conte Umberto Marzotto l’aveva sposato nel 1954. Da lui avrà cinque figli: Paola, Diamante, Vittorio, Matteo e Annalisa, mancata nel 1989. Con il matrimonio muta il paesaggio, la scenografia della vita di Marta diventa il mondo. Incontra intellettuali, scrittori e dittatori, come ha scritto nella sua biografia, Smeraldi a colazione (Cairo editore): Hemingway che si sedeva a tavola così ubriaco che “ruttava e scoreggiava” e Francisco Franco in una battuta di caccia alle pernici in Spagna.
“La Contessa Serbelloni Mazzanti vien dal mare ero io. Nel disegnarne il personaggio in Fantozzi, Paolo Villaggio si era ispirato a me. In famiglia lo sapevano e ridevano”, aveva detto in un’intervista al Fatto qualche anno fa. Gli anni passano e la contessa Marzotto diventa celebre per le feste e le cene, tra l’amata Cortina, Roma e Marrakech: una mondanità che anticipa di decenni i reportage di Dagospia.
Fa la stilista di vestiti e disegna gioielli, per i quali ha avuto una vera passione. Se le dicevi “che bella collana hai”, succedeva che lei se la togliesse per regalartela: della sua generosità, in queste ore, gli amici non smettono di parlare. E poi, e poi ci sono gli amori di cui non si può tacere anche se troppo è già stato scritto. Ovviamente Renato Guttuso che di lei era pazzo, letteralmente. L’ha ritratta in mille quadri, spesso senza abiti, anche se lei giura di non aver mai posato “Né per lui, né per nessun altro. Mai: né vestita, né nuda, né seminuda”. Restano i disegni – di cui le sue case erano colme – dove l’amore esce dalla tela con una potenza impressionante.
Che posasse o no, il pittore adorava la sua musa. Si erano incontrati a una festa nel 1970: “Sono una sua ammiratrice”. E lui: “Dal prossimo minuto diventerò suo grande ammiratore anch’io”. Seguirono vent’anni di relazione forsennata, con alti e bassi. Compresa la parentesi con il “rivoluzionario da salotto”, Lucio Magri, di cui il pittore fu gelosissimo. Al punto di scrivere una preghiera che iniziava con “Ave Martina” e finiva con “E liberaci dal Magri. Amen”.
Migliaia di lettere raccontano la tormentata storia: “Il mio pensiero non ti lascia perché io vivo del pensiero di te, sono avvolto in una dolce nuvola d’oro che si chiama Marta e fuori da questa nuvola mi sento solo e sperduto”. Un epistolario che lei non ha potuto rendere pubblico, a causa di una lunga battaglia legale con l’erede del pittore: “Dopo 40 anni non posso divulgare i sogni che Renato mi dedicava e non capisco il perché. Quando morì, le lettere vennero sbattute ovunque. Giornali, settimanali, riviste. Creandomi danni enormi e devastando il mio matrimonio. Avevo deciso di invecchiare vicino a Umberto, ma lo scandalo rese la situazione ingestibile”. Del resto Leonardo Sciascia l’aveva avvertita: “Te la faranno pagare”. E aveva ragione.
Negli ultimi giorni in clinica “nonita” aveva trasformato la sua stanza in un suk: ha recuperato due enormi pacchi di braccialetti indiani per regalarli a tutte le infermiere, dottoresse e mogli dei medici. In camera ha fatto appendere le sue foto mentre bacia Sean Connery e Kevin Kostner. Non si è lamentata neanche una volta, raccontano i familiari. Tutti i giorni diceva “Mai stata meglio”. Ed era felice. Così tanto che aveva cominciato a scrivere il terzo libro. Come insegna Vecchioni, “La vita è così grande che quando sarai sul punto di morire, pianterai un ulivo, convinto ancora di vederlo fiorire”. E Marta Marzotto la vita se l’è divorata con gusto. Fin qui.


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Paola Pisa per Il Messaggero

«Ciao nonita mia». Ha fatto il giro del mondo la frase dolce e affettuosa con cui la nipote Beatrice Borromeo ha dato la notizia su Twitter e salutato una nonna amatissima, celebratissima, simpaticissima. Il superlativo è d’obbligo quando si parla di Marta Marzotto, che si è spenta ieri a ottantacinque anni nella clinica milanese La Madonnina dove era ricoverata da qualche giorno. Aveva intorno la sua grande famiglia. Bella e stravagante, coraggiosa, esuberante, generosa, Marta Vacondio, questo il suo nome, ha avuto come dice nella sua recente biografia, molte vite.
Nasce a Reggio Emilia il 24 febbraio 1931. Cresce povera, lavora come mondina: «Sentivo le bisce sgusciare intorno alle mie caviglie...». Grazie al fisico diventa presto modella, piomba nell’alta società grazie al matrimonio con un protagonista della grande industria italiana, ama artisti e politici di fama, quando decide che il suo gusto merita la passerella diventa stilista, soprattutto forma una famiglia che adora. 
TURBANTI E CAFTANI
È una icona di stile che non passa inosservata, quando entra in un salotto o a una sfilata tutti si voltano a guardarla. È arrivata Marta con i suoi capelli biondi e lunghi, i cappelli giganti, i turbanti, i gioielli a chili, gli abiti lunghi a caftano.
Il sorriso non manca mai. È gioia di vivere. «Io ho sempre sorriso alla vita, ma lei non sempre a me», ha detto pensando alla morte della figlia Annalisa, con il figlio Matteo creerà poi una Fondazione per la Fibrosi cistica. Nel corso della sua vita la contessa Marzotto ha frequentato personalità di tutti i mondi. Era figlia di un casellante e di un’operaia, la fame non le era sconosciuta tanto che in una intervista televisiva, ridendo, raccontava di quella volta che a lei e alla mamma avevano regalato una scorta di pane: lo avevano mangiato dopo giorni di digiuno tutto in una volta facendosi venire dolori a non finire. È bella, di lei si innamora, come nelle favole, un conte. Lui è Umberto Marzotto. Sono cinque i figli che hanno insieme: Paola, Annalisa, Vittorio Emanuele, Maria Diamante, Matteo. Nove i nipoti, tra cui le bellissime Isabella e Beatrice, sposata con Pierre Casiraghi.
TITOLO E COGNOME
Il matrimonio Vacondio-Marzotto è del 1954, il conte le lascerà per sempre titolo e cognome. Marta riceve molto, conosce il mondo. Frequenta Hemingway e lo giudica privo di freni inibitori, va a caccia con Francisco Franco. Ma è piena di vita, vuole di più. L’amore grande arriva con il pittore Renato Guttuso, che la ritrarrà mille volte. Ne farà la sua musa e ispiratrice. Spettacolari i disegni nella casa del Pincio, dove Marta abita nella sua vita romana. Sono tutti e due sposati e le famiglie non si toccano. Lei un giorno dice: «Nella mia infedeltà ero fedelissima, sono stata una moglie perfetta». Guttuso la chiama libellula d’oro, le scrive decine di lettere al giorno. Cinquemila pare siano quelle dell’epistolario completo.
È divertente, Marta, la ammira anche il presidente Pertini che la chiama al telefono la mattina per una chiacchierata. Il rapporto tra l’Artista e la Contessa dura venti anni, poi Guttuso muore e a lei sarà vietato vedere i suoi ultimi giorni. È perfino portata in tribunale per la riproduzione di settecento opere del pittore. Prima condannata, sarà poi scagionata. Comunque sono giornate di amarezza, a non finire. Ed ecco spuntare un nuovo amore, Lucio Magri, bellissimo e intellettualissimo politico, la storia durerà dieci anni. Anche questa finisce con un po’ di amarezza. Marta continua la sua vita esuberante, viaggia, è sempre dove può guardare il mondo e dove il mondo la guarda. Eventi, salotti, mostre, sfilate. Decide di fare una sua linea di moda, la chiama Marta da legare, sono vestiti che lei potrebbe indossare: lunghi, colorati, esotici.
A questo punto Roma non va più bene. La nuova casa è in Centro a Milano: divani, tessuti colorati, cuscini, amici. La moda la adora. Non c’è passerella che non la veda in prima fila. Non c’è stilista che non la voglia vestire. Dice Laura Biagiotti: «Sono molto addolorata, credevo fosse eterna. La vecchiaia non l’ha mai toccata. La conoscevo da quaranta anni, con mio marito abbiamo passato tanti Natali nella sua casa di Cortina. Era sempre alle nostre sfilate. Dolce con mia figlia Lavinia. Ha dato molto alla moda, è stata una icona vulcanica e generosa. Era estroversa, per lei mettere abiti e gioielli originali era come indossare un costume di scena». 
LE ESEQUIE
È Angelo Bucarelli, critico d’arte a sostenere: «È stata un grande personaggio, testimonial estroversa di un’epoca irripetibile. Ha attraversato, con una sincerità innocente, cultura, moda, arte. La rimpiangeremo». «Mamma aveva grande ottimismo e fame di vita - dice il figlio Matteo - Ci ha sempre spronato ad andare avanti, a mettere a frutto i nostri talenti. È questa l’eredità morale che ci lascia. E, dopo un periodo di odio-amore per Roma è tornata nella sua Milano». Dove lunedì alle 11, nella chiesa di Sant’Angelo, si svolgeranno i funerali. È uscito da poco il libro Smeraldi a colazione, biografia in cui Marta Marzotto parla della sua vita ricca di eventi, di personaggi, di storia, di famiglia, e sopratutto e sempre di tantissimo amore.

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Naomi Campbell per il Corriere della Sera
La prima volta che ho incontrato Marta, fu a una sfilata di Gianni Versace, fine anni ‘80 o primi ‘90. È difficile ricor-dare la data perché Marta aveva una tale presenza che mi sembrava di conoscerla da sempre. Mi colpirono subito l’allegria contagiosa, l’energia, la gioia che spar-geva intorno a lei e la genti-lezza che mostrava con tutti. Quella personalità e quell’energia le ho ritrovate in lei ogni volta, in ognuno dei giorni speciali che abbiamo passato insieme, in Marocco, a Punta del Este, a Porto Cervo e in Sud Africa. Quando la invitai alla festa per gli 80 anni di Nelson Mandela, mi rispo-se: «Ci sono, vengo». Nel dirlo, forse aveva già prepa-rato la valigia. Poteva pren-dere tre aerei a settimana, vivere no stop 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Come me, non si fermava mai. Aveva risorse inesau-ribili da ragazza. I giorni con Mandela sono stati i più belli. Marta aveva capito quanto fosse importante, per me, spendermi per il Nelson Mandela Children’s Fund e per i bimbi malati di Aids. Aveva un senso innato di generosità per aiutare le persone concretamente, soprattutto le donne. Di lei non ricordo consigli e dis-sertazioni, ma solo azioni. Quando c’era da aiutare qualcuno, appariva e dava una mano. Non parlava, ma faceva. E non perdeva l’otti-mismo, certa che il mondo si potesse cambiare. La guardavo e pensavo che aveva energie per fare cose incredibili. E certe sere, l’ultima volta a Capodanno, in Uruguay, mi mettevo ai suoi piedi e restavo affasci-nata dai racconti sulla sua vita. Aveva vissuto a colori più di qualunque persona io abbia mai conosciuto. Era una sopravvissuta. Era una combattente. Era la donna più grande che abbia incontrato. Ora, posso solo essere fiera di aver condivi-so dei momenti con una donna così generosa, che ha fatto cose straordinarie. Nessuno come lei aveva un senso così istintivo per farsi padrona del suo destino.
(Testo raccolto da Candida Morvillo)



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Marisa Fumagalli per il Corriere della Sera

Lei vulcanica, irresistibile e inarrestabile. Lui pacato, mai sopra le righe. Marta e Matteo, madre e figlio. Vite diverse. Ma c’erano i momenti dell’incontro disteso, preferibilmente a Cortina, nello chalet delle vacanze. Insieme, ricevevano gli amici. Marta talvolta indossava il costume «tirolese», dismettendo i leggendari caftani, l’inconfondibile «divisa». Stilista-dilettante, ma di forti intuizioni, aveva persino disegnato alcuni modelli per i preziosi tessuti della «Maison du Caftan» a Marrakech, dove Marta negli anni 90 acquistò un Riad. «Mia madre faceva progetti, sempre e ovunque. Era affamata di esperienze. Ripartire dagli errori e guardare sempre avanti era la sua cifra» dice ora Matteo.
Come ha reagito alla sua malattia?
«Combattiva, determinata a curarsi. Vigile e presente negli incontri finché ha potuto. Soltanto nelle ultime settimane di vita, sedata, Marta è stata costretta ad arrendersi».
Aveva un rapporto speciale con i nipoti.
«Sì, era la nonna che tutti vorrebbero avere. Nonostante le sue turbolenze, la sua esistenza sopra le righe. Insomma, era una nonna speciale. Affettuosa, positiva. Stimolante. Adesso, i 9 nipoti sono tutti qui, attorno a lei. Alcuni arrivati da varie parti del mondo».
Marta e i suoi amori. Il più famoso e discusso con Renato Guttuso. Ma anche Lucio Magri era un politico in vista. Gliene parlava?
«Si, è capitato. Erano discorsi tra adulti. Aperti, senza infingimenti. Io comprendevo bene, conoscevo la tempra di mia madre. Non mi sono mai sentito a disagio, anzi”.
La vicenda Guttuso ebbe, tuttavia, strascichi giudiziari. Momenti sgradevoli. Anche in quell’occasione Marta non si perse d’animo.
«Già, non sarebbe stato da lei cedere le armi. Anche se talvolta penso che alcune persone non avrebbero meritato alcuna attenzione».
La stilista-dilettante di buon gusto. Originale, oltre le mode. Era questo il bello della Marzotto. Dagli abiti ai bracciali. Un ricordo personale a Cortina, d’inverno: Marta sorride e regala agli ospiti i suoi pesanti monili.
«Rammento benissimo anch’io. Lei con le sue battute, al centro dell’attenzione. Una regina. Nulla di finto. Trasparente in ogni azione».
La collezione di abiti per la Standa fu un colpo di genio: moda nazionalpopolare.
«È vero, erano gli anni ‘90. Mia madre aveva sessant’anni, ma idee freschissime. Certo non era una stilista strutturata, eppure suppliva con la creatività e il guardare avanti».
L’ultima immagine di Marta vitale, l’ultimo incontro significativo?
«A Milano, poco prima che si ammalasse. Aveva organizzato un grande dinner e si era raccomandata che io ci fossi. Si parlò di tutto, e lei era propositiva come sempre. Anche nelle azioni di solidarietà si muoveva con leggerezza».
Il suo motto in due parole?
«Mai mollare».

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Umberto Pizzi per il Fatto Quotidiano
Marta era la regina della Dolce Vita. Quando ho cominciato a fare questo lavoro lei era una delle donne più in vista di Roma. Nei suoi salotti sfilavano i potenti. Lei, una bella donna, era moglie di un grande industriale del Nord-Est, e da lei si ritrovavano imprenditori, politici e artisti, come i suoi amanti Lucio Magri e Renato Guttuso.
L’ho conosciuta alla fine degli anni Sessanta, quando ho cominciato a fare questo mestiere, dopo le mie esperienze da fotoreporter nel Terzo mondo al seguito della Fao. Rischiavo di essere uno di quei soggetti tutelati dalla Fao e allora avevo accettato di fare il “paparazzo”, termine che non amo. Ero passato dal fotografare i bambini di strada a ritrarre la moglie di un ricco industriale e lei mi ha aiutato a sopportare questo lavoro. Forse si ricordava le sue origini umili e quando incontrava un proletario come me non si allontanava. Aveva scalfito i miei pregiudizi.
Grazie a lei ho visto il “mio” primo salotto, in piazza di Spagna 14: lì per la prima volta ho fotografato il potere attovagliato e addivanato. C’erano tutti perché erano eventi trasversali. Lei aveva paura che io la ritraessi in maniera cattiva. La osservavo e lei mi rispettava. Andavo sempre nei posti in cui faceva le feste, a volte entravo senza fare domande, tiravo fuori la mia macchina fotografica e lavoravo. Trovavi grandi intellettuali, Alberto Moravia o Alberto Arbasino, grandi attori, grandi industriali come Merloni. Era un mondo di altri tempi, che non esiste più. Negli ultimi anni Marta era sparita. Quando una come lei sparisce, si intuisce che qualcosa non va.
Con Marta se n’è andata una grande signora. Le piaceva divertirsi, non era un esempio di vita normale. Viveva così e viveva bene. Sempre molto allegra e solare, è una delle ultime testimoni di un’epoca. Non è l’ultima rimasta, ci sono ancora altri “reduci”, ma lei aveva un grado più alto degli altri.