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 2016  luglio 29 Venerdì calendario

I ragazzi in rivolta nelle valli del Kashmir

DAMHAL HANJIPORA. «Dovete tornare indietro», gridano. Con il volto coperto da fazzoletti e maschere, armati di pietre e bastoni, i ragazzi del Kashmir sono tornati in strada. Una nuova Intifada nella valle al confine tra India e Pakistan insanguinata da 30 anni di resistenza all’«occupazione di Delhi».
Un rigido coprifuoco imposto dall’esercito indiano paralizza ogni attività da più di due settimane, ma per raggiungere l’epicentro di questa ennesima protesta a poche ore dalla capitale Srinagar, le pattuglie non sono l’ostacolo principale. Ai check point dei militari attorno a Srinagar si passa, ma più avanti gruppi di giovani rivoltosi, tra i 12 e i 20 anni, bloccano con tronchi e rocce la superstrada. Chi riesce a dimostrare di non lavorare per gli odiati media indiani ha il permesso di continuare, fino ai paesi dove negli ultimi venti giorni almeno 50 persone hanno perso la vita.
Yasmeena, una di loro, viveva nel villaggio di Damhal Hanjipora, nel cuore del distretto di Kulgam. Studentessa, 20 anni, è stata uccisa mentre cercava di soccorrere suo fratello. Un proiettile l’ha colpita alla nuca nel primo giorno delle rivolte scatenate in ogni angolo del Kashmir dalla morte di Burhan Wani, un mujahiddin 22enne del gruppo Hizbul. Da tempo nella lista dei capi terroristi da eliminare, Burhan postava sui social network seguitissimi videoclip di propaganda che avevano fatto breccia soprattutto tra i giovani.
Nella sala comune ricoperta di tappeti e oscurata a lutto, i genitori di Yasmeena, cugini e testimoni raccontano come quell’8 di luglio, dopo che la notizia dell’uccisione di Burhan si era ormai diffusa, si sono riaccese proteste che sembravano sopite da un sentimento di impotenza durato per anni. E gli scontri sono diventati sempre più violenti.
Il fratello 16enne era in strada, più per curiosità che per militanza, dicono. Yasmeena andò a cercarlo. Lo trovarono sanguinante nell’incrocio principale di Damhal Pora, con l’asfalto ricoperto di pietre appena lanciate. Lo stesso su cui poi è caduta Yasmeena. La famiglia Wani, che porta lo stesso cognome di Burhan, racconta che ha dovuto lottare perfino per riottenere il suo corpo. La rabbia per la sua uccisione, spiegano, ha trasformato in pochi minuti gli abitanti del villaggio in tanti Burhan. Attraverso un passaparola si sono radunati davanti alla stazione di polizia del distretto. Hanno portato perfino una ruspa per radere al suolo le mura, bruciando tetti, mobili e auto, tutte di marca indiana.
Queste sono le terre che il governo di Delhi ottenne con la Partizione del ’47, da un maharaja che le aveva a sua volta acquistate dagli inglesi per pochi soldi, inclusa la popolazione a grande maggioranza islamica nel versante orientale del Pin Panjal. Dopo la guerra separatista dell‘89, questi villaggi avevano trovato in Burhan Wani l’erede moderno dei primi militanti addestrati in Afghanistan, capace di sedurre anche gran parte della popolazione tradizionalmente moderata.
La precedente “intifada” del 2011, concentrata soprattutto a Srinagar, partì dalla morte di un altro ragazzo. Ma Burhan Wani non era uno che si limitava a tirare pietre ai soldati. Li uccideva in agguati compiuti con il suo gruppo di 200 compagni coetanei, la metà reclutati sul web grazie ai video sulla sua vita di guerrigliero.
La gente incontrata nei villaggi immersi nelle piantagioni di meli, mandorle e riso, non fa che rassicurarci sulla natura pacifica dei kashmiri. Ma col fucile in mano Burhan è diventato più popolare di carismatiche figure separatiste, come il capo novantenne dell’ala dura di Hurryat, Syed Ali Shah Geelani, entrato e uscito di prigione innumerevoli volte. I funerali del moderato Abdul Ghani Lone 14 anni fa, forse ucciso da agenti pachistani, non aveva raccolto le folle che hanno partecipato alle esequie del giovane mujahiddin. Duecentomila dicono, mostrando il video.
Il funerale si è tenuto a Tral, villaggio natale di Buhran. Non c’erano scritte e slogan in nome dell’Is, ma vicino al luogo dove è nato ed è stato sepolto, la locale moschea espone una piccola bandiera nera con la scritta “Stato islamico del Kashmir”. A poche decine di metri suo padre Muzaffar, un direttore scolastico al servizio del governo, spiega sotto il tendone inneggiante al figlio “martire” che Burhan non era un agente pachistano come dice l’India, ma un giovane della sua terra, uno dei dieci milioni di “kashur” che aspettano da decenni l’adempimento della promessa di un referendum per l’autodeterminazione fatta dal primo capo del governo indipendente dell’India, il pandit kashmiro indiano Nehru.
Muzaffar ha solo un figlio maschio vivo, dopo l’uccisione lo scorso anno di Khaled, il fratello di Burhan. Dal nascondiglio delle foreste di Hijbul, Burhan iniziò a postare col telefonino i suoi video di vita guerrigliera con l’elenco delle atrocità attribuite all’occupazione indiana. Riconquistò così simpatie per i mujahiddin Hizbul in competizione – solo apparente, dicono gli esperti – con i militanti islamici filo pachistani di Laskhar i Toiba, anche grazie ai suoi inviti a risparmiare la vita di civili, pellegrini e turisti, sia indiani che stranieri.
Per questo ora tutti escludono un collegamento tra Burhan e l’Is, nonostante le accuse dell’India alle mire del Pakistan, le bandiere nere e le scritte “Is” col nome del mujahedin morto dipinte qua e là nel centro di Srinagar. «Questa non è una protesta in nome dell’Islam ma per Azad, la libertà, e i simboli dello Stato islamico sono più per provocare gli indiani che per convinzione», dice Hilal Mir, direttore del giornale Kasmir Reader.
Pochi giorni fa il potente ministro degli Interni di Delhi Rajnath Singh ha affrontato un Parlamento in ebollizione per le accuse di atrocità dell’esercito contro i civili, come i fucili a pallini che hanno accecato o ferito gravemente decine di giovani manifestanti. «I kashmiri sono la nostra gente, li porteremo sulla strada giusta», ha detto.