La Stampa, 26 luglio 2016
Gli inglesi vogliono rinunciare anche alle abbreviazioni latine perché Google non sa tradurle. I.e. (in altre parole) non prenderanno più un ph. d. (philosophiae doctor), non manderanno più un c.v. (curriculum vitae) e così via (niente più etc.)
Il governo inglese abolirà le abbreviazioni latine dal proprio sito gov.uk perché generano confusione, e perché i programmi di lettura e traduzione automatica di Google non li leggono correttamente. Spariranno così etc (et cetera, eccetera), e.g. (exempli gratia, per esempio) e anche i.e. (id est, in altre parole).
Si salveranno solo le abbreviazioni diventate di così largo uso comune che ormai si crede che siano inglesi e non latine, come quelle che indicano l’ora del mattino o del pomeriggio (AM, ante meridiem e PM, post meridiem) o che sono poste sulle tombe: R.i.p. non significa infatti “rest in peace”, ma requiescat in pace.
La decisione di Whitehall sta scatenando un putiferio in tutto il mondo, e le reazioni di chi frequenta il sito gov.uk sono divise a metà: molti pensano che sia giusto liberarsi finalmente di forme di comunicazione arcaiche per adottare un inglese più lineare, facilmente comprensibile a tutti in ogni continente; altrettante persone sostengono invece che se qualcuno non capisce il significato di etc farebbe meglio a starsene a casa propria, senza immischiarsi di quello che fa il governo. Persis How, responsabile dei contenuti dei Government Digital Services (Gds, nell’abbreviazione della lingua locale), ha detto che l’eliminazione delle abbreviazioni latine è stata voluta per facilitare la lettura alle persone che non sono di madrelingua inglese, e anche perché i programmi di traduzione e di lettura automatica per gli ipovedenti si impappinano quando si trovano davanti a un e.g.. Roger Wemyss Brooks, che insegna latino ed è membro della Latin Mass Society, gli ha risposto dicendo che il latino «fa parte della nostra tradizione, unisce le culture dell’Europa ed è usato per la sua meravigliosa capacità di sintesi», ed è quindi un errore metterlo da parte.
Non si sa ancora quante abbreviazioni latine cadranno sotto la scure del Gds, ma è certo che sarà difficile liberarsene. Lo stesso «Royal Cypher» della regina Elisabetta, «EIIR», è pieno di riferimenti latini: «E» è l’iniziale del suo nome, ma «II» è il numero romano che indica «seconda» e «R» sta per Regina, termine preferito all’inglese «queen». Anche quando firma personalmente le lettere, Elisabetta scrive dopo il suo nome l’abbreviazione latina Reg. E come si farà a rinunciare a «vs», versus, così usato nei titoli delle cronache sportive? E a «c. v.», curriculum vitae? E a «ph. d.», che in latino significava philosophiae doctor e in inglese identifica un dottore di ricerca? Persino «SOS», il segnale di soccorso che secondo la sua versione inglese significa «Save Our Souls», salvate le nostre anime, in latino significava si opus sit, se necessario.
Le abbreviazioni latine che possiamo leggere nelle lapidi e nei monumenti del Foro romano e di centinaia di altri siti archeologici sparsi per l’Europa sono così frequenti da essere oggetto di complessi studi. Non sempre venirne a capo è stato facile. È comprensibile che in un’epoca nella quale ogni parola doveva essere incisa nella pietra si cercasse in ogni modo di fare economia, per risparmiare spazio, tempo e denaro. La scritta Caeaugpp significava ad esempio Caesaris Augusti patris patriae (Cesare Augusto padre della patria) e Cae poteva significare Caesar (Cesare), ma anche Caecili, Caelius e Caesarum. Molto prima dei militari contemporanei, che hanno fatto delle abbreviazioni un’arte burocratica, i romani identificavano con Cacoh il custode armorium cohortis.
Comunque vada a finire sul sito del governo, i britannici non potranno rinunciare a indicare l’ora pronunciandola «eiem e piem», né dire «eiD» per l’anno Domini, né cap., il capitulus diventato «chapter». E se Google e gli stranieri non capiscono di che si tratta, peggio per loro.