26 luglio 2016
In morte di Julia Dobrovolskaja
Anna Zafesova per La Stampa
«Pensavamo sarebbe vissuta per sempre». Qualche volta succede che una morte nella notte del 99° compleanno arrivi comunque inaspettata, perché Julia Dobrovolskaja era un secolo di storia, ma non voleva essere un monumento vivente, come qualcuno la chiamava. Era viva e vivace, pungente, curiosa, lucida, spiritosa e disincantata, sempre pronta a conoscere persone nuove, a continuare a fare da straordinario ponte tra la cultura italiana e quella russa.
Contemporanea della Rivoluzione d’ottobre, alla quale aveva creduto profondamente per poi rifiutarla insieme all’ideologia del comunismo, ha vissuto tutte le disgrazie del suo secolo: ha partecipato alla guerra di Spagna come volontaria (ma ha sempre smentito di essere stata il prototipo della protagonista di Per chi suona la campana), è stata rinchiusa nel gulag (ed è stata salvata dal generale Dobrovolskij, venuto in prigione a sposarla nonostante fosse una detenuta ebrea accusata di tradimento della patria), ha attraversato la Seconda guerra mondiale. Ed è stata la protagonista di un secolo di cultura: nella sua seconda vita milanese ha tradotto autori come Nina Berberova e Lev Razgon, dopo aver fatto conoscere ai lettori russi Gianni Rodari, Leonardo Sciascia e Alberto Moravia.
Allieva di Vladimir Propp, ha insegnato russo a migliaia di italiani e italiano a migliaia di russi, ha firmato dizionari e manuali che sono ancora un punto di riferimento per chiunque voglia scoprire la cultura russa. Aveva scritto un libro autobiografico, Post Scriptum. Memorie. O quasi, ma non era e non voleva essere solo una testimone del passato, il suo appetito per la cultura, come lo chiamava, era rimasto insaziabile.
Sebastiano Grasso per il Corriere della Sera
In Russia la notizia della sua morte è stata data dall’agenzia Tass, dove lei aveva lavorato nel 1942. Leggeva la stampa straniera in 5 lingue (spagnolo, francese, tedesco, inglese, italiano), selezionando le notizie che riguardavano il suo Paese. Contemporaneamente insegnava Lingua e letteratura italiana all’università di Mosca. Julia Dobrovolskaja era nata sul Volga, a Nižnij Novgorod nel 1917. Viveva a Milano da 34 anni. Nel capoluogo lombardo era approdata nell’82, dopo un matrimonio combinato (per poter espatriare) con un gay italiano.
Una vita straordinaria e avventurosa, la sua. A cominciare dalla parentesi della guerra civile spagnola. Nel 1938 aveva affiancato il generale Vekov e seguito, come traduttrice, i volontari russi nella penisola iberica per combattere a fianco dei repubblicani contro Franco. Qui incontra Orwell, la «pasionaria» Ibarruri ed Hemingway: qualcuno la riconosce nel personaggio di Maria in Per chi suona la campana (ma lei ha sempre smentito una relazione con lo scrittore americano). Circa sessant’anni dopo Julia sarà la protagonista di Via Gorkij 8 interno 106 di Marcello Venturi. Uscito nel ’97, il libro verrà ripubblicato in ottobre dalle Edizioni Lindau di Torino.
Rientrata in Russia, Julia torna all’università. Allieva ed amica di Vladimir Propp, docente di filologia germanica, si laurea in Lingue. Dopo il lavoro alla Tass, nel ’44 viene arrestata e condannata a tre anni di lavoro penale. L’accusa? Come traduttrice in giro per il mondo avrebbe potuto tradire il proprio Paese. Nonostante sia la moglie del generale sovietico Aleksandr Dobrovolskij, finisce prima alla Lubianka e poi nel lager di Chovino. Con l’amnistia di Stalin, la riabilitazione. E l’insegnamento universitario, le traduzioni dei libri di Sciascia, Moravia, Parise, Rodari, le visite con la Callas, Guttuso, Abbado, Grassi, Manzù, Gregotti, Brandi, Squarzina, Nono, Cacciari. Dopo Budapest e Praga, Julia decide di lasciare l’Urss e di venire in Italia. Guttuso non approva la scelta dell’amica («traditrice della patria comunista») e da quel momento interrompe qualsiasi rapporto.
In Italia, la Dobrovolskaja insegna russo nelle università di Trento, Trieste, Venezia e Milano (l’ultima lezione, nel 2003, alla Statale, a 86 anni), scrive 7 manuali e il Grande dizionario russo-italiano italiano-russo (Hoepli, 2001), cura i libri di Nina Berberova, Jakov Rapoport, Evgenij Gnedin, Lev Razgon. Nonostante vent’anni di docenza negli atenei (incarichi annuali rinnovati), a Julia non era mai stata riconosciuta una pensione. L’unico aiuto le era venuto dalla legge «Bacchelli». La scrittrice ha continuato a lavorare senza sosta sino a qualche giorno addietro. L’ultimo scritto – ancora inedito – è la prefazione a Rivolta, il libro di Rino Tringale sulla Rivoluzione russa, che uscirà in febbraio prossimo dalla Se, in occasione del centenario.
Nel 2006, in Russia e in Italia erano uscite le sue memorie, Post scriptum, ristampate – e aggiornate – lo scorso anno. Cui possono aggiungersi, a completamento, alcune pagine iniziarli della prefazione a Rivolta, nelle quali rievoca il suo trasferimento al Policlinico di Milano in un momento in cui il cuore sembrava avesse ceduto definitivamente. «Se la sanità milanese è al top, il chirurgo che mi operò – Pietro Broglia, un dottore pasciuto e avanti con gli anni – è un’eccellenza nel suo campo, un vero fuoriclasse (…). Bofonchiava: “Sono vecchie queste arterie, non vanno. Dovremo rimandare”. “No, dottore, ne cerchi un’altra. Saprò sopportare”. Il dolore in realtà era atroce, ma in quel momento non fu una preghiera a uscirmi dalle labbra, bensì un sonetto: “Tanto e gentile e tanto onesta/ pare la donna mia/ quand’ella altrui saluta…”. Delizioso e strabiliante fu che Broglia proseguì con me: “C’ogne lingua devén tremando muta…” e che subito dopo, anche la dottoressa con la frangetta brizzolata, con gli occhi incollati al monitor, si unì a noi. Dopo quasi tre ore di ricerche, il povero, sudatissimo Esculapio (parola che Cechov tanto amava) stanò la vena adatta e il pacemaker fu messo a dimora sotto la clavicola sinistra».