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 2016  luglio 26 Martedì calendario

Il piano del massacro di Monaco è nato nel reparto di Psichiatria della clinica di Untergiesing-Harlaching

MONACO Vasi di violette sui davanzali, margherite nel giardino leggermente incolto, sculture di merli, alle pareti poster dell’infinità della volta celeste, pazienti che escono a fumare e a correre in pigiama, uno spazio con poche barriere se non le reti nella tromba delle scale per impedire i suicidi. Il piano del massacro di venerdì è nato qui, negli edifici del reparto di Psichiatria della clinica di Untergiesing-Harlaching.
Zona meridionale di Monaco, fuori dalle mappe turistiche, quartiere residenziale di villette e piccoli bar a conduzione famigliare. Nei palazzi costruiti nel 1898, due solitudini si sono incontrate nel nome di Breivik. Quella di Ali Sonboly, il diciottenne con doppia cittadinanza iraniana e tedesca, il killer del centro commerciale. E quella del sedicenne afghano fermato domenica dalla polizia, suo amico del cuore e cultore morboso del folle che nel 2011 aveva ammazzato in Norvegia 77 persone. L’anno scorso erano stati ricoverati, per due mesi. Si erano conosciuti e piaciuti; da allora erano diventati inseparabili.
Sonboly arrivava da un lungo periodo di violenze a scuola, vittima dei bulli, picchiato, derubato e insultato. L’afghano, che venerdì era nel centro commerciale ad aspettare Ali e nulla ha fatto per fermarlo o dar l’allarme, è rimasto impresso nella memoria di un dipendente dell’ospedale per la sua esuberanza. Cercava in tutte le maniere di farsi notare. La testimonianza dell’uomo, un cinquantenne che prende servizio intorno alle tre del pomeriggio, è un’eccezione nel rispetto rigoroso della privacy dei tedeschi. Non vuol parlare il dottor Phil Hill, direttore della struttura sanitaria, tacciono medici e infermieri, refrattari i tirocinanti, chiusi nel no comment quelli dell’ufficio stampa; prima dell’allontanamento, veniamo invitati a rivolgerci per ogni domanda alla polizia.
La polizia, che sul sedicenne mantiene ancora parecchio riserbo, conferma la contemporanea presenza nel reparto psichiatrico dei due amici e un legame fortissimo. In mattinata alcuni media locali avevano parlato dell’imminenza, sempre venerdì, di un secondo attentato per mano proprio dell’afghano. Medesime le modalità, diverso soltanto il luogo. Prima la «convocazione» in un cinema vicino alla stazione Centrale di gruppi di coetanei, attirati da un finto profilo Facebook; poi gli spari.
L’ipotesi non è stata avallata dagli investigatori che peraltro hanno già rilasciato il sedicenne (pur se indagato in stato di libertà) forse per monitorare il traffico di chiamate e incontri nei prossimi giorni. L’hanno accompagnato a casa e non sarebbero state adottate misure straordinarie come con la famiglia Sonboly, trasferita in un luogo protetto e dall’altro ieri «privata» dell’appartamento al quinto piano di via Dachaustrasse 67, nel quartiere della media borghesia di Maxvorstadt.
Sulla porta blindata al quinto piano ci sono due sigilli della polizia, entrambi datati 24 luglio. Ma uno, a differenza dell’altro, è stato tagliato dall’apertura della porta a conferma che continuano le perquisizioni: nell’inchiesta mancano elementi e, nessuno può escluderlo, forse altri nomi. Il condominio è tornato alla vita normale. Sulle scale si parla ancora certamente di Ali Sonboly, del suo atteggiamento da eremita, della sua espressione triste e dimessa, ma senza particolare interesse.
La conversazione è bruscamente interrotta dalla reazione a un violentissimo temporale alle cinque e venti. Alcuni passanti, bagnati fradici, chiedono se possono entrare a ripararsi e i residenti aprono subito il portone. Lo stesso atteggiamento di venerdì quando, nel caos e nella fuga, i bavaresi avevano ospitato in palazzi, bar, ristoranti, chiese, moschee e uffici chi cercava rifugio e protezione. Sembrava l’attacco su vasta scala dell’Isis. È stata la grande vendetta d’un diciottenne depresso che, prima di uccidere e uccidersi, aveva voluto salutare il compagno d’ospedale e «scopritore» di Breivik.
Spesso sparivano dal padiglione della clinica e si allontanavano chiacchierando fitto fitto. Come con i genitori di Ali, i professori e i dirigenti scolastici, gli investigatori ascolteranno il personale di Psichiatria. La convinzione è che la strage era ampiamente evitabile e che più d’uno non ha saputo o voluto vedere.