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 2016  luglio 26 Martedì calendario

La psicologa dei rifugiati: «Proviamo ad aiutarli, ma non sempre ci riusciamo»

Bamberg «Proviamo ad aiutarli, ma non sempre ci riusciamo. A volte vengono qui per un paio di sedute e poi vedono un miglioramento. Altre c’è bisogno di un percorso più lungo». Il giorno dopo l’attacco ad Ansbach, la psicologa Christine Gnass prova a spiegare il suo lavoro. Siamo a Bamberg, 90 chilometri dall’attentato. Qui ci sono in tutto 1300 rifugiati. Lei lavora con loro. Anche con loro. Si siedono nel suo studio, sul divano o su una delle due sedie disposte accanto al tavolino. «Arrivano qui con tutto il loro passato, non solo con il presente. Con il presente ci si fa davvero sempre troppo poco». La durata è un’ora, come per tutti gli altri pazienti. I cittadini di Bamberg inframezzati ai rifugiati, quelli che arrivano dalle guerre, tutti inseriti dentro uno stesso palinsesto di malessere e di cura. Quando non ha spazio, chiede aiuto ad altri. «Siamo una rete», spiega. Le diagnosi psichiatriche in questi giorni hanno provato a chiudere i verdetti delle stragi tedesche, ma non hanno rimarginato le paure. Hanno anzi aperto le crepe di una Germania sotto tiro. Di più: hanno messo in scacco un paese che sull’assistenza ha fondato, in controtendenza con buona parte dell’Europa, la propria modalità di fronteggiare l’emergenza rifugiati. Anche la più organizzata delle macchine di aiuto, infatti, può saltare.
Quello di Christine Gnass è uno studio al primo piano del centro di Bamberg, in Alta Franconia, città patrimonio Unesco, birra e turisti tutto l’anno. Dopo gli attacchi in Bassa e Media Franconia, questa parte è l’ultima rimasta illesa, e oggi si sente per le strade, si vede nelle facce. L’impossibile è successo, e i turisti che sorridenti si immortalano nei selfie di fronte alla Kleine Venedig (la Piccola Venezia, gondola compresa) rendono il tutto ancora tutto più sinistro. Quello di Christine è uno studio confortevole in una città di buon gusto e cortesia.
«A un certo punto arrivano», dice. Anche se non è semplice, perché l’assistenza psicologica è una lunga attesa, e non soltanto per chi non è comunitario. Arrivano da loro su segnalazione: del Klinikum am Michelsberg, la clinica psichiatrica, o attraverso le Paten (le famiglie che fanno da madrine a ciascuno dei rifugiati presenti qui), oppure dalle reti di volontariato che stanno dentro i campi. «Sono importanti le segnalazioni, perché ci danno conto di situazioni che altrimenti non conosceremmo». Economicamente, se ne occupa lo Stato. Se sono già iscritti alla cassa malattia è più semplice il rimborso, altrimenti è un po’ più laborioso. Si sistemano su quel divano, dopo aver dato la mano a quella che probabilmente è la prima psicologa della loro vita. «Nei campi sarebbe impossibile prestare questo tipo di servizio», mi dice. Non c’è spazio, non si può dividere anche questo. Così arrivano sulla Luitpoldstrasse, nel suo studio.
I pensieri quando stanno troppo dentro finiscono per marcire, e non è facile trovare la strada per portarli fuori. Per fortuna i volontari dell’associazione Freund Statt Fremd (Amico anziché Straniero), vero motore dell’accoglienza a Bamberg, offrono loro ascolto oltre ad aiuti materiali. Ma per portare fuori i pensieri servono sempre le parole, che sono quelle che non hanno. Non c’è una lingua comune, tra loro e gli psicologi, che li guardano seduti sulla poltroncina accanto. Per questo arrivano quasi sempre accompagnati, a volte sono amici, altre son parenti. «Purtroppo non sono sempre professionisti del mestiere», mi dice Christine Gnass. Che significa che la pena di chi è venuto a cercare aiuto si impasta con la pena di chi traduce, ed è tutto più difficile. Si aggiungono parole e sempre è la cosa più efficace. «Poi c’è la vergogna, il solito pensiero di essere malati», che fa rinunciare la persone, le tiene chiuse in casa. Per questo a volte provano soluzioni diverse, come un nuovo intervento di gruppo di derivazione norvegese che proprio in questi giorni stanno sperimentando. Ma evitano di chiamarla terapia. Li convocano in luoghi, per questa ed altre iniziative, e poi sperano che vengano, per dargli un poco di sollievo.
Non sempre è facile, però, convincerceli ad uscire. Tante volte funziona, altre no. Stanno lì, sperando che vincano ogni resistenza. «Qualcuno a volte non capisce perché restino nei campi o negli appartamenti, invece di venire». E restano così, con la faccia messa per traverso ad aspettare, sconfitti tutti insieme. Quelli che ci hanno provato e quelli che non ce l’hanno fatta.