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 2016  luglio 24 Domenica calendario

La fine del prato (e del Sogno americano)

Diceva la grande storica dei giardini Isadore Smith, scomparsa nel 1985, che l’America ha dato un solo grande contributo alla progettazione degli spazi verdi: il prato davanti a casa. Quel fiume lirico, democratico, curatissimo e senza recinzioni, lungo il quale scorrono le sue villette. Più di 163 mila chilometri quadrati, quasi quanto il Nebraska, che ha unificato il paesaggio americano non solo fisicamente, ma culturalmente, che sta agli Stati Uniti come il baseball, la torta di mele, il rabbocco gratis di caffè. «Nessun prato è un’isola», scrive Michael Pollan, evocando John Donne, nel bestseller Una seconda natura (1992). Notando che per gran parte della storia americana, un prato rigoglioso e ben tenuto è stato un simbolo non solo di prosperità individuale e collettiva, ma di responsabilità e ideali condivisi. Socialmente regolato perché, come cantava Woody Guthrie negli anni Quaranta, This land was made for you and me. Un prato sorridente, raccomandava Andrew Jackson Downing, padre della paesaggistica statunitense, è segno d’ordine e cultura. E supera divisioni antropologiche. Quando Nick Carraway affitta la casa adiacente a quella di Jay Gatsby, nel romanzo di Fitzgerald, e non mantiene il prato secondo gli standard di West Egg, Gatsby ne è talmente infastidito che invia il suo giardiniere per falciarlo.
Gatsby, si sa, era un gentiluomo. Molto più prosaicamente, dall’Illinois alla Virginia, leggi locali regolano l’altezza dei prati domestici, incoraggiando a denunciare inadempienti. Così, nel 2008, un pensionato della Florida la cui distesa erbosa era sfregiata da antiestetiche chiazze marroni finì dietro le sbarre. L’ossessione nazionale per il prato ha portato gli americani a spendere, nel 2011, 40 miliardi di dollari solo per accudirlo.
Nel secondo dopoguerra, Levittown, primo modello di suburbia di massa, permise a migliaia di famiglie di acquistare una villetta, e il prato divenne simbolo del Sogno Americano. Le serie tv perpetuavano il mito. Il carissimo Billy (1957-63), dove curare il prato è anche il primo lavoretto del protagonista. Soprattutto la casa de La famiglia Brady (1969-74), che alloggiava otto persone e di prati ne aveva cinque. L’orgoglio per la nuova ricchezza, oltre al valore storicamente attribuito alla proprietà privata, era manifestato dalla frase «Vai fuori dal mio prato!», archetipo del Nimby – Not in my back yard, non nel mio cortile —, che i pensionati degli anni Cinquanta e Sessanta gridavano a irrispettosi ragazzini cresciuti nel boom economico.
Tutto questo oggi è cambiato.
Una combinazione di fattori – economici, sociali e ambientali – ha messo in discussione l’utopia suburbana del prato, come già il baseball, la torta di mele, il «free refill» e il lavoretto estivo. Secondo dati del governo sulle nuove case, mentre la villetta unifamiliare media cresce (232 metri quadri nel 2015, quasi il doppio di fine anni Settanta), il prato si restringe. Nel 1978 la villetta media poggiava su un terreno di 8.900 metri quadri. Oggi quel lotto è sceso del 13%, su base mediana (il valore centrale della serie di terreni ordinati dal più piccolo al più grande) di oltre il 26%. Un dato che non tiene conto delle case su misura, fenomeno sempre più comune, ma è significativo. «È un compromesso finanziario – spiega a “la Lettura” Svenja Gudell, capo economista di Zillow Research, che studia i trend del mercato immobiliare —. Vogliamo case grandi, ma ogni metro quadrato in più ci costa, specie vicino alle città. Gli agenti tengono i prezzi accessibili riducendo il prato».
Ma perlomeno si torna a comprare. Quando nel 2011 Marc Cherry, creatore di quella satira corrosiva della periferia residenziale che è Desperate Housewives, ne annunciò la fine, spiegò che la suburbia ricca e glicinosa, sotto i cui prati falciati alla perfezione si nascondeva ogni perversione, non esisteva più. La crisi dei mutui subprime aveva invaso le Wisteria Lane d’America, i quartieri di tutte le «casalinghe disperate», e sui prati, che ormai nessuno più tagliava, campeggiavano i cartelli «Vendesi».
Non solo crisi. Per Edward Glaeser, docente ad Harvard e uno dei massimi esperti di economia urbana, il declino del prato ha molto a che fare con le severe regole di zonizzazione del Nordest, che moltiplicano i prezzi delle case, e con il boom degli appartamenti condominiali. «La crescita americana, per ragioni economiche, di permessi edilizi e qualità della vita – dice a “la Lettura” – favorisce la Sun Belt, gli Stati della fascia meridionale, dove i lotti sono storicamente più piccoli e per via del clima caldo lo spazio pubblico rimpiazza il privato». Non a caso, nella classifica di «U.S. News & World Report» sulle migliori cento città statunitensi, 24 delle prime 50 sono al sud. «La periferia americana somiglierà sempre meno alle regioni del Nordest. E questo è un bene, perché una densità maggiore riduce le emissioni di anidride carbonica».
Ed è proprio il nuovo «ambientalismo di sopravvivenza», come lo chiama Megan Garber sull’«Atlantic», uno dei grandi nemici del prato. Il 2% d’America adibito a prati è pari a tre volte la superficie destinata alla coltura del mais, falciare il prato per un’ora con un tosaerba classico inquina quanto guidare l’auto per 160 chilometri. Gli americani scaricano sui prati 90 milioni di chilogrammi di pesticidi l’anno (che uccidono 9 milioni di uccelli), consumano per innaffiarli 34 miliardi di litri d’acqua al giorno. Allarmi ignorati per anni – fino alla Grande siccità che ha colpito la California, costringendo l’anno scorso il governatore Jerry Brown a imporre una drastica riduzione dei consumi idrici. All’improvviso spopolava l’app DroughtShame, per mettere alla gogna gli irriducibili dei prati. Tra loro anche Tom Selleck, portato in tribunale dalla contea di Ventura per furto d’acqua pubblica. «L’hashtag #droughtshaming segnala il mutamento di pensiero – nota Garber —. Se fino all’altro ieri quello di Selleck sarebbe stato senso civico, oggi virtù è ignorare il prato».
In tv, la gogna era già arrivata. Nella terza stagione di Mad Men (2009), dove il prato incontra «la cultura corporate», e finisce male. Un tosaerba di John Deere, gigante del settore, provato negli uffici della Sterling, trancia il piede del nuovo capo Guy, ponendo fine a una carriera e schizzando di sangue le camicie dei Don Draper. Ma la grande ironia del prato americano è che non è affatto tale: i semi arrivano dall’Africa, dall’Asia, motivo per cui non prospera da sé. «Sterile, sciupone», lo bolla Lorrie Otto, del movimento per il paesaggio naturale alla Thoreau.
Ragioni validissime. Ma ce n’è un’altra: il tempo. L’americano medio trascorre fino a 150 ore l’anno ad accudire il prato, e non ce la fa più. Tagliare l’erba, nel 2011, era l’incombenza più invisa a uno su cinque, più di spalare la neve, e l’anno scorso uno su tre ha assunto qualcuno per farlo – perlopiù messicani. E se una cura ritualistica del prato serve a David Foster Wallace per illustrare il tedio ne Il re pallido (2011), falciarlo è per Jonathan Franzen «attività che più di tutte induce alla disperazione», come ha raccontato in Più lontano ancora (2012). Continuava a rimandarla, ospite di amici in loro assenza, finché il prato non fu invaso da calabroni giganti, e Franzen, per bruciarne i nidi, quasi tirò giù la casa.
E chissà che il declino del prato non sia dovuto anche a questioni di genere, se i primi tosaerba erano commercializzati come mezzi per scandire la divisione dei compiti tra i coniugi, e il prato – come il cortile sul retro per il barbecue, le cui fiamme certo hanno bisogno di una forza maschia per essere domate – era l’equivalente da uomo di cucina e soggiorno della moglie. Così, nel romanzo Revolutionary Road di Richard Yates (1961), il prato falciato da April diventa trasgressione e causa di litigio col marito Frank, che si sente usurpato, e ridicolizzato agli occhi dei vicini come incapace e pigro.
Oggi, Stati come il Nevada, la California e l’Arizona pagano i cittadini fino a 13,3 dollari al metro quadro per rinunciare al prato in favore di piante locali e giardini di pietra. «Il marrone è il nuovo verde», si legge sui cartelli che rimpiazzano nani e fenicotteri rosa.
Torneranno i prati?