Corriere della Sera, 24 luglio 2016
La fine di Schengen non sarebbe meno grave della fine dell’euro
Alla fine l’Europa dell’euro e della burocrazia, delle banche e della finanza, di tutti i simboli più detestati e divisivi, rischia di saltare su un’altra mina: la paura, l’immigrazione, il ritorno delle frontiere. Fenomeni diversi che i nemici dell’Europa hanno interesse a confondere.
Senza che l’Europa si muova per evitarlo.
La fine di Schengen, che si sta ormai manifestando, non sarebbe meno grave della fine dell’euro. Rappresenterebbe l’abolizione dell’eguaglianza tra i popoli e gli Stati del continente, e la rinuncia al governo comune dei flussi migratori.
Un’Europa che chiude Ventimiglia e il Brennero, la via per la Francia e quella per il mondo tedesco, è un’Europa che scarica sull’Italia il peso non solo di affrontare gli sbarchi dal Sud e dall’Est del Mediterraneo, ma in genere il compito durissimo di reggere la frontiera con il mondo islamico e subsahariano. Finora un solo Paese aveva dato segni concreti di voler condividere la responsabilità: la Germania. Per questo l’attacco alla Germania – e in particolare alla Baviera – rappresenta un rischio per tutta l’Europa, a iniziare da noi.
L’aggressione ai passeggeri del treno di Wurzburg e il tiro al bersaglio sui clienti del centro commerciale Olympia di Monaco sono due crimini molto diversi. Il primo è stato commesso da un profugo, suggestionato dalla propaganda islamista; il secondo da un figlio di immigrati nato in Germania, forse suggestionato dalla strage paranazista di Utoya. Entrambi sembrano frutto di frustrazione e ossessione più che di un piano predeterminato. Ma in questa estate di paura le reazioni prescindono dalle cause. Faticano a distinguere tra jihadismo e insofferenza alle tensioni etniche. E il fatto che l’Isis, più che organizzare, apponga il proprio marchio su Orlando e su Nizza, sul massacro nella discoteca gay e sulla strage del 14 luglio non abbassa l’allarme sociale, se possibile lo amplifica: l’«uberizzazione» del terrore (come la chiama Bernard-Henri Lévy) rende imprevedibili attacchi «in franchising», semina allarmi, divide comunità, crea un mostro sfuggente e aleatorio. Non una forza da cui difendersi o un’organizzazione con cui trattare magari sottobanco, ma una minaccia che colpisce a caso – cinesi in vacanza o clienti di un McDonald’s —, si fa viva dove meno te l’aspetti, è in grado sia pure per pochi minuti di diventare padrona della vita e della morte di chi ha la sventura di passare da lì; non a caso l’unico aspetto comune tra Parigi e Bruxelles, tra Nizza e Monaco, è la constatazione che la macchina della sicurezza si è mossa male. In queste circostanze è fin troppo facile per gli estremisti e i populisti additare il generico nemico islamico senza fare distinzioni, senza realizzare che tra i primi obiettivi del terrore c’è proprio indurci a discriminare le minoranze musulmane di casa nostra, per radicalizzarle e renderle permeabili alla propaganda fondamentalista.
Finora la Germania, e la Baviera in particolare, hanno tenuto. In Baviera è arrivato il milione di profughi cui la Merkel ha aperto le porte. I cristianosociali che da sempre governano il Land hanno chiesto un limite, ma hanno rifiutato di strumentalizzare le vittime: «Certo che vogliamo un tetto all’arrivo degli stranieri, ma non vogliamo collegare una richiesta politica con un fatto di sangue» ha detto il ministro dell’Interno bavarese dopo Wurzburg. Però la prima correzione di rotta si era già avuta: l’accordo con la Turchia; i rifugiati siriani restano in Anatolia, in cambio di soldi e della riapertura delle trattative per l’ingresso di Ankara in Europa; una prospettiva che le repressioni di Erdogan rendono palesemente impossibile, e anche questa è un’incognita che pesa sulla capacità dell’Ue di reggere l’emergenza.
In questo anno non si è fatto alcun passo in avanti, anzi. E non solo perché la cooperazione nel Mediterraneo e sulle coste resta allo stato embrionale, e non è sufficiente. In Francia si vota tra nove mesi e i fondamentalisti fanno oggettivamente il gioco di Marine Le Pen, spingendo anche i candidati della destra repubblicana su posizioni anti-Schengen. La chiusura dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, dall’Austria all’Ungheria chiamate entrambe a votazioni delicatissime, è evidente. La Polonia isolazionista ha ora davanti il difficile compito di garantire la sicurezza a oltre un milione di ragazzi che a fine mese incontreranno il Papa alle Giornate mondiali della gioventù. Il Regno Unito è fuori, e tenterà di rimanere nell’area di libero scambio economico limitando la libera circolazione dei cittadini comunitari, e sottraendosi alla solidarietà europea nell’accoglienza dei profughi e nel governo dei flussi.
Non resta che la Germania. La vera guida dell’Unione. Riprendere il controllo delle frontiere meridionali dell’Ue, continuando a salvare vite ma distinguendo tra profughi da far entrare e irregolari da respingere, e colpendo duramente gli scafisti e gli organizzatori del traffico, non può essere solo una questione italiana; deve diventare una priorità europea. Un traffico che per dimensioni (le statistiche secondo cui gli sbarchi sono meno numerosi dell’estate scorsa possono essere capovolte in pochi giorni) e per metodi – una spietatezza ben oltre i limiti della crudeltà, in particolare verso le donne – si configura ormai come un vero e proprio crimine contro l’umanità.
Immigrazione e terrorismo non sono ovviamente la stessa cosa. Ma per impedire una simile confusione, l’Europa deve mostrare di saper controllare le sue frontiere esterne, senza erigere muri tra un Paese e l’altro. Altrimenti a restare intrappolata sarà innanzitutto l’Italia. A cominciare dai prossimi mesi. Prima la politica – che sta passando l’estate a discutere di olgettine e nuovi partiti centristi – se ne rende conto, meglio è.