Corriere della Sera, 24 luglio 2016
A Kabul oltre 80 morti, almeno 250 feriti. Il primo massacro rivendicato dall’Isis nella capitale afghana
Volevano la luce, protestavano per l’energia elettrica, imbracciavano lampade a petrolio. In mezzo a loro aspettavano i kamikaze: uno, due, forse tre. Oltre 80 morti, almeno 250 feriti. A Kabul: la strage più sanguinosa dal 2001. Il primo massacro rivendicato dall’Isis nella capitale afghana.
Migliaia di persone in marcia sotto il cielo terso. Anziani con la barba lunga, tanti uomini ma anche ragazze con gli occhiali da sole e il velo leopardato. Afghani di etnia Hazara (minoranza sciita, 10-20% dei 30 milioni di afghani), con i figli al fianco e gli slogan di chi si sente discriminato «da settanta generazioni». Molti partiti all’alba da Bamyan, la provincia dei Buddha giganti fatti saltare dai talebani poco prima della guerra mai finita. Volevano la nuova linea elettrica, chiedevano al governo di far passare dalla loro terra i piloni dell’alta tensione. Per impedire che arrivassero al palazzo presidenziale – come nel novembre 2015 – l’esercito aveva bloccato le strade del centro con i container. Ieri non c’erano tanti poliziotti a garantire la sicurezza. Erano i manifestanti a preoccupare, non i terroristi. E c’erano i container a fermarli. Gli stessi che hanno reso difficile il passaggio delle ambulanze, quando la luce all’improvviso è arrivata.
Il lampo devastante di uno o due kamikaze a piazza Deh Mazang, dove il fiume umano si era arenato. Sosta per la preghiera, pausa per un gelato.
Il boato, il fumo, il sangue, la rivendicazione del sedicente Stato Islamico che dalla lontana Siria è andato in Afghanistan a far concorrenza ai talebani. Due o tre mila uomini, concentrati nelle province orientali. L’attacco a Kabul segna un accresciuto raggio operativo e capacità di fuoco. Ironia della sorte, la manifestazione Hazara del novembre 2015 fu innescata da un crimine firmato Isis: sette persone della stessa famiglia furono sequestrate e decapitate nella provincia di Zabul. Migliaia di manifestanti a Kabul andarono a protestare con le bare sulle spalle chiedendo sicurezza. Qualcuno cercò di scalare le mura del palazzo presidenziale, la polizia sparò e uccise.
Ieri dal palazzo è arrivato via Twitter il cordoglio del presidente Ashraf Ghani. Che poi in tv ha proclamato per oggi un giorno di lutto nazionale. Via email i talebani hanno smentito ogni coinvolgimento. Una volta tanto. Quella con l’Isis è una lotta a chi arruola di più, una gara al massacro più grande. Là non ci sono lupi solitari, ma branchi organizzati.
Fonti di intelligence dicono alla Bbc che un comandante Isis chiamato Abo Ali avrebbe inviato tre jihadisti dalle roccaforti del Nangarhar. Solo uno, secondo il governo, si sarebbe fatto esplodere. A piedi o su camion frigoriferi: ieri Kabul, il mese scorso Bagdad. Sconsolante: le due stragi più sanguinose arrivano a circa quindici anni dall’inizio delle rispettive guerre, Afghanistan 2001, Iraq 2003. Record di vittime, quando si dovrebbe parlare dei record di un’avvenuta ricostruzione.
Solo il 30% degli afghani ha l’energia elettrica. L’80% è d’importazione. La protesta riguarda una grande linea ad alta tensione (500kV) finanziata dall’Asian Development Bank. La «Tutap» (Turkmenistan-Uzbekistan-Tajikistan-Afghanistan-Pakistan) doveva passare per le province di Bamyan e Wardak, dove vivono molti Hazara. Ma il piano è cambiato. L’alta tensione passerà per il Passo di Salang, provincia orientale di Khost. Quella di ieri è la seconda «marcia della luce» organizzata dagli Hazara. Dopo quella di maggio, il governo aveva approvato un piano per una linea secondaria a beneficio delle province Hazara. Ma la protesta è continuata. «Basta lampade a petrolio, vogliamo l’elettricità». Lungo quei cavi agognati, è chiaro, passa tutta l’alta tensione e lo scontento di chi ha una storia di discriminazioni alle spalle. E sfruttare la marcia di chi vuole la luce per fare una strage è certo frutto di una sottile, calcolata crudeltà.