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 2016  luglio 25 Lunedì calendario

L’era del rigore è (quasi) finita

La crescita economica che si genera dal mercato è troppo debole, potrebbe ancora infiacchirsi nei prossimi mesi. Per rafforzarla è necessaria una più intensa azione delle autorità pubbliche, anche nella politica di bilancio: la riunione dei ministri delle Finanze del G-20 conclusa ieri a Chengdu in Cina segna un altro passo nel lento distacco dalla dottrina dell’austerità e del rigore.
L’errore risale a sei anni fa, al G-20 di Toronto. Si ritenne che la grande crisi fosse terminata e che la normalità sarebbe tornata presto; tutto come prima, occorreva riportare i bilanci in pareggio e ridurre il debito. Pier Carlo Padoan da tempo ha fatto autocritica per la marginale parte di responsabilità che ne portò, come capo economista Ocse.
Il mondo non è tornato come prima. La crescita non è mai ripartita con vigore nei Paesi avanzati; può soffrire di qualsiasi contrarietà, ultima la Brexit. Così la rabbia di chi è rimasto indietro nutre forme svariate di protesta populista, anche negli Stati Uniti, dove i disoccupati sono pochi eppure i salari restano fermi.
A Chengdu i dirigenti cinesi hanno spiegato che in caso di nuove difficoltà non potrà essere di nuovo il loro Paese, come nell’inverno 2008-2009, ad assumersi il carico principale di contrastarle. La Cina si trova in una delicata fase di passaggio, deve chiudere acciaierie e miniere per le quali non c’è sufficiente mercato nel pianeta.
Del resto l’ormai consunta ortodossia dell’austerità è assente dalla campagna elettorale americana. Chiunque vinca, una espansione del deficit di bilancio è certa. Donald Trump promette massicci sgravi fiscali senza indicarne chiaramente la copertura, e inoltre investimenti in infrastrutture; Hillary Clinton vuole più investimenti e più spesa sociale.
Se dopo l’estate non si vedranno novità positive, un più ampio uso di «tutti gli strumenti di politica economica» diverrà inevitabile. Gli Stati torneranno a spendere di più, come hanno cominciato a fare Canada e Corea del Sud, mentre il Giappone prepara misure a favore dei più poveri e dei lavoratori precari. Il nuovo governo di Londra è pronto a reagire se l’allontanamento dall’Unione europea sarà traumatico.
Nello stesso tempo, occorre essere coscienti che questo comporterà nuovi rischi di instabilità finanziaria. La bassa crescita è per buona parte causata dall’eccessiva concentrazione di ricchezze. Il mercato ce la rivela in forma di tassi di interesse al minimo storico: si sono ridotte le occasioni di investimento produttivo, a fronte di enormi capitali in instabile caccia di rendimenti.
Finora, voci autorevoli consigliavano di rassegnarsi al lavoro che non si trova e al benessere che non cresce; la via maestra restava ridurre il debito per prevenire pazzie della finanza come quelle che si sono viste negli anni scorsi. Sono ora gli elettori di vari Paesi, mutando il loro voto in direzioni molteplici e impreviste, a dire di no.
All’interno dell’area euro, tutto questo inasprirà i contrasti. Quel che resta delle regole di rigore (con gli aggiustamenti di bilancio che si tentano di imporre a Spagna e Portogallo) benché sempre più inadatto al mondo come è oggi, agli occhi di molti governi resta comunque una garanzia contro possibili scelte sconsiderate di alcuni altri.
Di fatto, gli effetti negativi di instabilità sarebbero quasi certamente superiori ai positivi con un’Italia in maggior deficit e una Germania sempre in pareggio. Avremmo invece solo effetti positivi da una espansione coordinata con un bilancio centrale dell’area. Ma la via politica per arrivarci pare sbarrata dalle stesse forze che gli errori del passato scatenano.