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 2016  luglio 25 Lunedì calendario

Tutto pur di far fuori Trump. Alla convention di Hillary con l’endorsement di Bloomberg

Missione: fermare il ciclone Trump. Condizione: unire la sinistra. I democratici si radunano nella città che diede la Costituzione agli Stati Uniti, in una sfida che qualcuno ormai considera come una questione di vita o di morte per la liberaldemocrazia più antica del mondo. L’appuntamento arriva mentre Donald Trump rimbalza nei sondaggi, in alcune rilevazioni è alla pari con Hillary Clinton. 4.700 delegati del partito democratico convergono oggi su Philadelphia, la convention nominerà la prima donna candidata alla Casa Bianca. Un evento storico, ma la sua portata innovativa è attenuata dal fenomeno Trump che relega la Clinton nella categoria «vecchio ceto politico».
Lo slogan d’apertura, “United Together”, evoca un’America solidale in tutte le sue componenti etniche, religiose o sessuali, una società accogliente che trae forza dalle diversità. “Uniti insieme”, è in contrasto col linguaggio delle divisioni razziali usato da Trump. Ma lo slogan sembra un invito rivolto allo stesso partito democratico che arriva a questa kermesse dopo una campagna di primarie laceranti.
Anche i democratici hanno avuto la loro insurrezione interna, guidata dal socialista Bernie Sanders che ha messo in difficoltà la Clinton.
Sanders ha entusiasmato e mobilitato i giovani più tanti delusi dalla politica che sono tornati a sognare un cambiamento radicale. Erede del movimento Occupy Wall Street, Sanders denuncia la corruzione della democrazia americana ad opera delle lobby, il ruolo nefasto delle banche di Wall Street, le diseguaglianze abnormi. Per una beffarda coincidenza, il palazzo dello sport di Philadelphia come quello di Cleveland che ospitava la convention repubblicana, sono sponsorizzati dalla finanza (Wells Fargo a Philadelphia, Quicken Loans a Cleveland).
Ricostruire l’unità del partito è compito prioritario di questa convention. Già stasera mette in campo due protagonisti dell’operazione “ricucitura”. Michelle Obama, la First Lady sempre popolarissima, il cui appeal supera i confini ideologici. E Sanders, lo sconfitto indispensabile. Che ha negoziato le condizioni del suo appoggio. Ha ottenuto dalla Clinton che figurino nella piattaforma elettorale alcuni suoi obiettivi: aumento del salario minimo legale a 15 dollari l’ora, università gratis per i giovani meno abbienti, sovratasse sui ricchi e sulle rendite finanziarie. Inoltre Sanders ha ottenuto la “testa” della presidente del partito democratico, Debbie Wasserman Schultz. Fedelissima della Clinton, la Schultz è la vittima dell’ultima rivelazione di Wiki-Leaks: migliaia di email interne al partito democratico hanno dimostrato che la macchina del partito fin dall’inizio voleva la vittoria di Hillary alle primarie. Sanders porterà avanti la battaglia per le riforme della democrazia interna a cominciare dall’abolizione dei superdelegati, quei notabili di partito che partecipano alla nomination d’ufficio, non come espressione delle primarie.
Ma la “rivoluzione politica” che Sanders prometteva, è compatibile con la storia da “insider” di Hillary? La nomina del suo vice, il senatore della Virginia Tim Kaine, ha deluso l’ala sinistra. Kaine ha tante qualità: parla spagnolo, viene da quel Midwest (è nato nel Missouri) dove Trump corteggia la classe operaia impoverita dalla globalizzazione. Ma Kaine è un fautore dei trattati di libero scambio; ha ricevuto generosi finanziamenti elettorali dalle compagnie petrolifere. La questione morale, il ruolo del denaro nelle campagne dei candidati, è un tema su cui Hillary ha molti scheletri nell’armadio. Con la nomina di Kaine, cattolico e moderato, lei conta di sfondare al centro. Un primo punto lo ha segnato: alla convention viene a dichiarare il suo endorsement Michael Bloomberg, l’indipendente ex sindaco di New York. Aveva accarezzato l’idea di correre come terzo candidato, ora verrà a Philadelphia a difendere dalla minaccia Trump la tradizione liberale.
Mercoledì verrà Barack Obama, riunificatore-capo. Se c’è un leader che può parlare a tutte le anime del partito è lui, che vinse due volte costruendo una coalizione “multicolore” con alta affluenza di giovani, neri, ispanici. Ha in abbondanza quel carisma che manca a Hillary. Ma deve giocare in difesa: contrastare la narrazione di Trump sul declino americano non è facile, in un’epoca di tensioni razziali, attentati, disagio della middle class. E prima di Obama, martedì parla Bill Clinton, l’aspirante Primo Marito. Un coacervo di contraddizioni: ancora amato da molti democratici, l’ex presidente è il fondatore di una dinastia familiare carica di scandali. Intanto Trump fa di tutto per rubare visibilità ai democratici: ieri ha lanciato idee clamorose come l’uscita degli Usa dall’Organizzazione mondiale del commercio e controlli alla frontiere estesi a chi arriva dalla Francia.