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 2016  luglio 23 Sabato calendario

I alone... Analisi del discorso d’investitura di Trump

CLEVELAND (Ohio) «Gli americani che ci vedono stasera sono allarmati dalla nuova ondata di violenza nelle strade, dal caos nelle comunità. Vi assicuro che il crimine e la violenza che ci affliggono con me spariranno rapidamente: dal 20 gennaio 2017, il giorno del mio insediamento alla Casa Bianca, la sicurezza dei cittadini verrà ripristinata».
A Trump è stato attribuito il tentativo di appropriarsi dell’eredità di Reagan, uomo di spettacolo divenuto grande comunicatore e politico capace di essere in sintonia col suo popolo. Sicuramente la rivoluzione reaganiana fa parte del Dna di Trump che, però, si ispira soprattutto al Richard Nixon che nel 1968 divenne presidente cavalcando le paure di un’America sconvolta dal dramma del Vietnam, dai disordini razziali, dall’assassinio, proprio in quei mesi, di Robert Kennedy e di Martin Luther King. Il miliardario cerca di cavalcare la stessa onda, ricalca lo slogan di Nixon, «law and order», e prova a ridare corpo a quella «maggioranza silenziosa» che fu l’esercito nixoniano occulto.
L’americanismo
«La principale differenza tra me e la candidata democratica è che io metto l’America al primo posto. Il nostro credo sarà l’americanismo, non il globalismo: “America first” e le altre nazioni devono ricominciare a trattarci con rispetto».
«America First» è lo slogan storicamente usato negli Usa dagli isolazionisti. Trump in parte lo è, ma ha usato questo argomento per gettare benzina sulla depressione degli americani che si sentono cittadini di un Paese in declino, più che per ricollegarsi a quelle radici ideologiche. Promette che gli Usa batteranno i pugni sul tavolo, ma non dice come. Respinge l’approccio multipolare di Obama e di Hillary Clinton che, secondo lui, ha indebolito l’America, ma non abbraccia nemmeno l’unilateralismo muscolare di George Bush. Rimane solo il Paese che si chiude in sé stesso.

L’attacco all’avversario

«L’America è molto meno sicura di quando Obama ha affidato la sua politica estera a Hillary Clinton. Nel 2009, quando lei si è insediata, l’Isis nemmeno esisteva, la Libia era un Paese stabile, l’Egitto era pacifico, in Iraq la violenza era calata, l’Iran era strangolato dalle sanzioni, la Siria era sotto controllo. Dopo quattro anni di cura Clinton la Libia è in rovina, l’Isis è ovunque nella regione, l’Iraq è nel caos, l’Egitto è caduto nelle mani dei musulmani estremisti spingendo i militari a intervenire, l’Iran marcia verso l’arma nucleare. Hillary Clinton ha lasciato morte, distruzione, terrorismo e debolezza».
Il Trump solenne e presidenziale dell’inizio del discorso viene rimpiazzato dal candidato schiacciasassi che criminalizza l’avversario. Hillary al Dipartimento di Stato ha fatto di certo errori, ha grosse responsabilità per l’eliminazione di Gheddafi che ha gettato la Libia nel caos, ma non ne ha, ad esempio, per la cacciata di Mubarak da lei difeso fino all’ultimo, definendolo anche «un amico di famiglia». Ma Trump vuole dimostrare che il salto nel buio che gli americani accetteranno nominando «The Donald» presidente è sempre meglio di uno «status quo» che lui dipinge come catastrofico.
La comunità gay
«A Orlando 49 americani massacrati da terroristi islamici che stavolta hanno preso di mira la comunità gay, quella Lgbtq. Basta, li fermeremo. Farò di tutto per proteggere la comunità degli omosessuali dall’ideologia dell’oppressione e dell’odio. E da repubblicano, apprezzo l’ovazione con la quale avete accolto le mie parole. Grazie».
Per la prima volta fa appello alla comunità gay che non ha rapporti facili coi conservatori americani, contrari, tra l’altro, ai matrimoni tra omosessuali. Trump si prende il rischio di una correzione di rotta con suo discorso e con l’invito sul palco di Peter Thiel, un miliardario della Silicon Valley dichiaratamente gay che rivendica la sua diversità davanti alla «convention». Sembra funzionare: la platea applaude e Trump tira un sospiro di sollievo.

Il sistema economico

«Sono sceso in politica per evitare che i potenti continuino a prevalere su chi non è in grado di difendersi. Nessuno conosce i sistema meglio di me, ecco perché solo io posso aggiustarlo. Io ho visto coi miei occhi come la politica, spinta dal potere economico, approva accordi commerciali convenienti solo per le imprese ma che distruggono milioni di posti di lavoro. Con me le imprese smetteranno di trasferire impianti e produzioni all’estero».
Molti accusano Trump di non essere credibile come leader antisistema: è un «insider», un miliardario che ha vissuto in simbiosi con la «vecchia politica». Lui cerca di smarcarsi rivoltando la frittata: ha approfittato della situazione, è vero, ma gli è servito per imparare e ora è pronto a smantellare il sistema perverso nel quale anche lui ha vissuto e prosperato: è l’ennesimo atto di fede che Trump chiede ai suoi elettori. E i suoi fan sono pronti a dargli carta bianca. Anche perché lui si presenta non come il miliardario chiuso nella sua torre d’avorio ma come un imprenditore abituato a lavorare e familiarizzare con carpentieri, muratori ed elettricisti.