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 2016  luglio 22 Venerdì calendario

Lasciamo le Olimpiadi fuori dalla nuova Guerra Fredda

L’Unione Sovietica non aveva mai vinto una medaglia d’oro nel nuoto. Poi arrivò la ranista Galina Prozumenshchikova. La nuotatrice ai Giochi del 1964, del ’68 e del ’72 ne portò a casa cinque. Senza contare le vittorie a europei e mondiali. Galina è morta l’anno scorso a 66 anni “dopo lunga malattia”, aveva spiegato la Federazione russa di nuoto. Il corpo è stato cremato. Fu vera gloria la sua? La vicenda sportiva e umana della Prozumenshchikova, uguale a quella di centinaia di atleti russo-sovietici, spiega due cose dell’immoralità del doping nello sport: che rovina l’immagine e il ricordo di grandi campioni; che l’uso metodico della chimica per la gloria sportiva confusa con una forma malata di nazionalismo, non l’ha inventata la Russia di Vladimir Putin. È nella storia sportiva dell’Unione Sovietica. Anzi, lo era di tutto il blocco a Est del Muro di Berlino. Insieme a Mark Spitz, dal punto di vista tecnico il più grande nuotatore della storia fu Roland Matthes della Ddr, un Paese laboratorio quanto a chimica sportiva. Quattro ori, due argenti e due bronzi in tre Olimpiadi. Noi dorsisti del mondo occidentale guardavamo Matthes ammirati, tuttavia chiedendoci sempre se quel fenomenale galleggiamento fosse un dono di natura o una truffa.
Sport e patriottismo sono uguali ovunque nel mondo. Quest’estate anche nella algida Islanda sono tutti impazziti per la nazionale di calcio. Nella storia delle Olimpiadi non c’era finale di basket e di hockey fra Usa e Urss che non si trasformasse in una tauromachia della Guerra fredda. I vincitori tornavano a casa celebrati come astronauti: cosmonauti se erano sovietici. E non c’è luogo al mondo nel quale degli atleti o i loro allenatori non continuino a provarci col doping. Un paio d’anni fa i Carabinieri hanno scoperto un giro impressionante di anabolizzanti nelle gare strapaesane di ciclismo.
Ma in Urss e satelliti era una pratica di sistema. Sembrava che fosse finita con la fine della Guerra fredda. Poi il crollo di vittorie della nuova Russia. Alle Olimpiadi invernali di Vancouver, del 2010, il Paese degli eroi sportivi conquistò solo tre medaglie d’oro e 15 in totale. Undicesima: un’umiliazione. E tutto sembra essere ripreso come quando c’era Breznev che era pazzo per l’hockey. Quattro anni dopo, a Sochi, 13 ori e 33 medaglie in tutto: prima la Russia. Le squadre sono sempre spinte dal tifo di casa, è statistica olimpica. Ma il carniere di Sochi era così sospetto che le prove che fosse stato rimesso in piedi un sistema malato, sono state trovate.
Ora però il problema è un altro: è giusto escludere una intera nazione di atleti, frutto di una grande tradizione sportiva? Ha senso un’Olimpiade senza la Russia che è una protagonista, e lo sarebbe anche se non si drogasse nessuno dei suoi atleti? Alle Olimpiadi di Mosca del 1980 non partecipò l’Occidente a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan; a quelle di Los Angeles dell’84 non partecipò il blocco comunista per ritorsione. Le sole cose che ricordiamo di quei giochi fu l’oro di Pietro Mennea a Mosca (per l’Italia cattocomunista l’importante era partecipare, sempre) e l’uomo col razzo sulla schiena, atterrato sullo stadio olimpico di Los Angeles. A Monaco 1972 ci fu il massacro degli atleti israeliani. A Montreal ’76 boicottarono gli africani perché l’Occidente non boicottava abbastanza il Sudafrica dell’apartheid. E anche allora non fu vera festa.
Chi afferma che lo sport debba essere tenuto separato dalla politica, è un qualunquista. Dai tempi di Atene il primo è sempre stato uno strumento della seconda: a volte perfino il contrario. La Maratona è il frutto di un atto di guerra e i mondali di calcio in Argentina del 1976 li vinse soprattutto il generale Videla. Per le satrapie dell’Azerbaigian e del Kazakistan o per l’emiro del Qatar, organizzare manifestazioni sportive è politica estera.
Ma in un mondo difficile e incomprensibile come quello di oggi, le autorità sportive di Ginevra dovrebbero evitare di essere così salomoniche e raggiungere invece una giustizia creativa: curare il cancro del doping senza uccidere il paziente di Rio al quale teniamo tutti. Di guerre fredde ne abbiamo abbastanza.