la Repubblica, 22 luglio 2016
Nella base militare di Augusta, lì dove i medici cercano di dare a quei migranti morti un nome e un cognome, che non sia Pm390304
Una strada stretta, in forte discesa tra la colossale raffineria dei russi della Lukoil e un cementificio. Barriere, filo spinato e telecamere. Base militare della Marina, Nucleo Pontile Nato, i rifornimenti delle navi militari che incrociano nel Mediterraneo si fanno qui.
Vale a dire: siamo in un altro mondo. Ed è uno strano mondo, dove la gente di mare s’è piano piano affezionata a un barcone, estratto dalle profondità del Mediterraneo con il suo carico di morti stranieri, e s’è messa subito a disposizione di una dottoressa, che tratta i morti, anche i più repellenti, come se fossero bambini bisognosi, che viene circondata dai giovani delle università. Ne arrivano in tanti, da tante città italiane, ventenni con la voglia di «essere», di diventare scienziati, che poi se ne tornano nelle loro case, «cambiati per sempre».
Perché – viene da chiedersi tra queste tute bianche che proteggono dalle infezioni, ma non dai pensieri inconsueti – senza un briciolo d’amore e di speranza che cosa saremmo? È in questo mondo, lontano da tutti, che siamo entrati, penetrando sino all’Area Rossa dell’operazione che nei dispacci della Marina chiamano «Melilli 5». Melilli dal nome del paese più vicino alla base, 5 perché siamo al quinto recupero di salme. Molto banale?
Invece «l’Italia è il primo paese al mondo che, di fronte allo stillicidio dei naufragi, sta provando a dare un nome e un cognome a queste persone», dice la dottoressa dai modi spicci, Cristina Cattaneo. Ha cominciato a Milano, negli anni ’90, a cercare l’identità dei “morti sconosciuti”, adesso è un’autorità internazionale. Quello che sta combinando, grazie alla Marina e al commissario del governo Vittorio Piscitelli, che obbediscono alla Presidenza del Consiglio, ha creato forti critiche: «Ma non potevano lasciare questi morti in fondo al mare? Perché spendere tanti soldi inutilmente?».
Pm390304 è, per ora, tutto quello che sappiamo di un corpo estratto dal camion frigo, sta finendo sul tavolo dell’autopsia. La sigla significa Post Mortem; 39 è il prefisso, quindi vuol dire Italia; 304 significa che sono stati aperti sinora 303 “body bags”, sacchi dei corpi; lui è il prossimo. Finisce in una delle due tende refrigerate che funzionano come obitorio per le autopsie. Intorno a ogni tavolo, i medici esperti e, sempre, un antropologo – «Sono bravi – spiega Cattaneo – a contare subito le ossa, a dire se ci sono troppe falangi, a notare un callo, un’operazione, ogni elemento utile per le identificazioni» – e vari gruppi di studenti. Si apre e si chiude un “body bag” dietro l’altro. Mentre i condizionatori ronzano tra i camion frigo, va avanti una sorta di catena di montaggio di corpi ammaccati, che mescola senza sosta pietà e scienza, organizzazione e spirito da detective, dove comprendi nello stesso istante che cosa può fare la miseria contro un uomo e che cosa possono fare la scienza e il decoro per l’uomo. Ma non facile da condividere, almeno all’inizio, né l’odore della decomposizione, né quel cumulo ordinato di bare – Pm00390202, Pm00390203 – in fondo a sinistra. Più d’uno è svenuto, anche qualche medico è dovuto andar via.
Giovani mani guantate districano quel groviglio di ossa e tessuti che è Pm390304. Viene, come gli altri Post Mortem, dal barcone senza nome che abbiamo visto poco fa.
Dritto come se fosse impegnato in una facile navigazione, il relitto sta poggiato sulla banchina. Bianca, azzurra e rossa, la vernice sembra quasi fresca. Intorno, c’è sempre qualcuno che lo guarda, anche adesso che è vuoto. Un vigile del fuoco, un sottufficiale della Croce Rossa, un reduce dell’Iraq. Sfidava il vento e le onde, è diventato la bara di «675 unità», 169 recuperate in mare nel 2015, 48 sempre in mare nel 2016 e 458 prese per mano, una ad a una, quando il barcone è stato estratto dai 370 metri di profondità, 75 miglia a Nord di Tripoli. Tecnologia italiana raffinatissima, braccia meccaniche telecomandate, militari che da incursori si sono trasformati in portantini, tra alghe, correnti, fango, pesci. Se uno lo guarda, il relitto, e ricontrolla i numeri, non può non restare incredulo: alle «675 unità» recuperate nelle varie operazioni Melilli, vanno sommati altri 24 morti trovati a Malta e 28 superstiti. Ma come ha potuto il povero Pm390304 trovare un posto là sopra, o là sotto?
Per i nostri standard, questo è un peschereccio al massimo adatto a trenta persone. Sarà stata la forza o la debolezza a farlo resistere in quel posto trovato e pagato agli scafisti assassini?
Il contrammiraglio Nicola De Felice è l’ufficiale che è riuscito, riunione dopo riunione, a trovare una soluzione per tutto: «C’erano morti in coperta, morti nella stiva frigo, dove abbiamo praticato due aperture, morti nel gavone di prora. Morti nel vano motore, nelle sentine, morti coperti dall’olio combusto, forse – ipotizza con sconcerto – c’erano cinque persone per metro quadrato». Quando i primi cadaveri sono stati trasportati a Catania, nel 2015, per le autopsie, c’era stata la sollevazione dei medici e degli abitanti. Quindi, bisognava trovare una soluzione e il responsabile di Marisicilia ha trasformato con i suoi militari un ampio pezzo di questa base: un campo di baseball è diventato un parcheggio, un capannone è stato suddiviso in area verde (ci lavorano la polizia scientifica e la squadra Mobile), area gialla (decontaminazione) e area rossa, con i morti nei camion frigo e i medici, «dove si accede solo con la protezione individuale». E dove adesso tocca a Pm390304.
«Per noi marinai – continua De Felice – ogni nave è un sacrario, i nostri sommergibili affondati nella seconda guerra mondiale sono territorio italiano. I morti in mare, che siano recuperati o che restino sotto, la dignità la mantengono. Restano persone, caduti. Ma sono le loro famiglie ad avere bisogno di sapere che cosa sia successo ai loro cari, sanno solo che all’improvviso hanno smesso di rispondere al telefono, se mi metto nei loro panni…».
«Siamo stati fortunati», interviene una dottoressa, richiamando l’attenzione di Cristina Cattaneo. E cioè? Nascosti dentro un pezzo di plastica cucita nella maglietta, ci sono passaporto e carta d’identità. Leggibili: 0304 era un agricoltore, veniva dalla Repubblica del Mali, zona di Boubacar Konate, era nato nel 1982, è morto a 33 anni.
«Prima c’era un ragazzino, aveva cucito la pagella, con i bei voti in chimica e fisica. Altri hanno piccoli sacchetti, pensavamo chissà cosa contenessero», si sorprende un giovane medico, «invece è la terra di casa che li accompagna». L’antropologa ricorda: «Ci sono adolescenti di 13, 14, 15 anni, uno aveva un tesserino dell’Unhcr, l’agenzia dei rifugiati, per chiedere asilo».
«Quattro ragazzi – aggiunge la dottoressa Cattaneo – avevano le magliette con la scritta “Against Murder”, contro la morte». Si sta accumulando qui un corredo di santini, fototessere, agende con numeri di telefono, anche italiani. Oggetti e ricordi che sfilano sotto gli occhi di medici e poliziotti, una massa di materiale che assieme a quanto rivela Facebook, perché molti giovani migranti hanno un profilo e chattavano, e assieme alle lettere dei parenti, che già stanno arrivando alle università, può diventare un elemento utile per le identificazioni. Non facili, certo: una banca dati internazionale manca e soltanto in questa “operazione Melilli 5” sono stati trovati uomini donne e bambini di Sudan Somalia Mali Gambia Etiopia Senegal Costa D’Avorio Eritrea Guinea Bissau, Ciad e Bangladesh.
Ma identificazioni nemmeno impossibili, come dimostra un precedente molto citato dalla Croce Rossa Internazionale: do- po un altro naufragio, avvenuto anni fa, a Lampedusa, il commissario Piscitelli ha ottenuto oltre trenta identificazioni. Sono esperimenti, ma funzionano, e l’Italia guarda avanti.
Lo dimostra anche il fatto che, accanto alle tende delle autopsie, ci sia per il nono e ultimo giorno un furgone per la Tac, messo a disposizione dell’ospedale di Palermo da un’azienda privata: «Questa tragedia produrrà anche un ampio materiale scientifico ed esiste l’obbligo di citare gli strumenti usati. Noi qui abbiamo acquisito – dice il radiologo Francesco Lo Re – le tac di circa 150 corpi». I radiologi, a differenza dei patologi, non toccano i cadaveri sigillati nei body bags. Li analizzano su uno schermo. La Tac scansiona «quello che c’è» dentro i sacchi, ne legge «la densità, le ossa sono bianche, l’acqua è nera, i tessuti grigi». Dopo aver visto da vicino l’autopsia, la precisione asettica, quasi intellettuale come quadri di Zdzislaw Beksinski e di Hieronimus Bosch, sembrerebbe una passeggiata: «L’osso iliaco non è formato, questo è un ragazzino, avrà al massimo 17 anni. Guardi, questo ha una Sim e tre rasoi, questo è un telefonino», si sente dire. Anche Cristina Cattaneo, che ha visto da vicino tutti i cadaveri, è diventata ora più attenta. Stiamo scoprendo che quelle braccia e quelle mani che sul tavolo delle autopsie i giovani aprono, districano, sino all’ultimo istante di respiro racchiudevano le gambe. Sfila nei Body bags un esercito di morti abbracciati stretti stretti a se stessi: è così che hanno trovato posto, è così che sono andati a fondo. Martedì, nonostante il divieto di riprendere immagini saggiamente imposto dalla procura di Catania, viene qui il regista messicano premio Oscar Alejandro Inarritu. Non è riuscito a restare lontano nemmeno lui, autore di «Biutiful», da questa base della Marina. E, allo stesso modo, non stupisce apprendere che il barcone della morte, destinato a essere distrutto, forse sarà salvato: «Ogni volta che lo guardo – racconta un capitano di corvetta – penso a tutto quello di nuovo che abbiamo fatto. In fondo è un simbolo di tantissime cose, vive e morte».
Questo barcone forse viaggerà ancora, probabilmente per «attraccare» a Milano. C’è una delle due palazzine del Cimitero Maggiore ad accoglierlo. Qui, vicino all’ex area Expo, l’università sta studiando da tempo come creare un museo interattivo, che tenga insieme la medicina legale scientifica, una “Csi” criminalistica con i piedi per terra, e anche la medicina “umanitaria”, perché questo barcone che cos’è, viene da dire con il capitano di corvetta, se non un potente simbolo della violazione dei diritti umani? L’idea, che piace anche al neo sindaco Giuseppe Sala, prende forma mentre l’autopsia di Pm390304 è finita, anche lui viene chiuso nella bara di zinco e trasportato in un altro capannone, già colmo di bare pronte per essere trasportate nei cimiteri di Riesi, Serradifalco, Caltanissetta, che hanno accettato di accogliere i primi defunti.
Pm390304 viene inciso sulla cassa e verrà inciso sulla lapide, finché dal Mali forse verrà qualcuno a rintracciarlo, o si farà vivo, per portargli un fiore, o per chiedere a un Padre Buono se davvero si possa finire in questo modo, per dirci, e dire a chi vuole che i morti restino tra i pesci, se otto milioni di euro per recuperare e seppellire i tanti Pm siano troppi, o se al contrario siano pochi, molto pochi. Da quaggiù, dal buco sul fianco del barcone, si vede un’Europa che continua a contare gli euro e chiedersi cosa sia giusto fare, e un’Italia che ha scelto che anche l’agricoltore Pm390304 fa in qualche modo parte di noi.