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 2016  luglio 21 Giovedì calendario

Nelle università turche è l’ora delle manette

«Carissimo, sono all’aeroporto di Sabiha Gokcen, sto partendo. Dove? Per una località nel Mediterraneo. Ci sentiamo al mio ritorno». Fugge, non c’è dubbio, l’anziano professore di Letteratura, opponendo il massimo della vaghezza. È primo mattino, a Istanbul, e il Consiglio turco per l’Alta Istruzione ha appena diramato il divieto per i viaggi di lavoro all’estero dei docenti universitari. Esortando, al tempo stesso, «coloro che già si trovano fuori dalla Turchia a tornare in patria nel più breve tempo possibile».
Un altro giorno cupo, sul Bosforo. E le nuvole nere che si accalcano sulla metropoli lo certificano come un marchio. La notizia della stretta su docenti e università circolava nelle ultime ore. Chi ha potuto, ha fatto armi e bagagli e lasciato il Paese. Il bollettino lo dà l’agenzia di stampa semiufficiale Anadolu: il Consiglio chiede “indagini” su tutto il personale accademico e amministrativo ritenuto legato al movimento dell’imam Fetullah Gulen, accusato dal presidente Erdogan di avere organizzato il golpe fallito del 15 luglio. La grande purga di Erdogan si abbatte ora, dopo i golpisti, i giudici, i giornalisti, gli agenti, anche sui docenti universitari. 1.577 presidi di Facoltà sono costretti a rassegnare le dimissioni, mentre il ministero dell’Istruzione annuncia la sospensione di altri 6.538 dipendenti dopo i 15.200 già allontanati ieri e i 21 mila a cui è stata tolta la licenza per insegnare nelle scuole, già 626 chiuse. Numeri impressionanti. Ma non è finita. Quattro rettori sono sollevati dal loro incarico per un presunto legame con Fetullah: si tratta dei numeri uno del Politecnico di Yildiz e delle Università di Gazi, Dicle e Yalova. Nel pomeriggio, arriva la notizia che il rettore dell’Università di Gazi ad Ankara, Suleyman Buyukberber, è arrestato. È il primo fermo di un accademico dopo il mancato golpe.
L’intero mondo accademico turco è sconcertato. E tutte le università di Istanbul, pubbliche o private che siano, sembrano spazzate dalla scure governativa che si abbatte sui centri della cultura. L’Università di Bilgi, giusto alla fine del Corno d’oro, è un campus verde dove i ragazzi siedono sull’erba con i libri in grembo. La sede è quella di una vecchia centrale elettrica, completamente ristrutturata, oggi un grande spazio pieno di colori: qui si fanno convegni, ci sono ottimi ristoranti interni, si interagisce con strutture europee e americane. Aydin ha 20 anni ed è iscritto a Legge: «Ma che cosa si è messo in testa il governo? Che le università siano piene di terroristi? Qui da noi non c’è mai stato nulla di sovversivo. Questa decisione mi pare solo l’occasione per Erdogan di eliminare i nemici che non aveva potuto colpire in condizioni normali. Il golpe gli è servito, eccome».
Il presidente non ha mai visto di buon grado la Bilgi. Fu proprio questa università, all’inizio del Millennio, a organizzare il primo convegno in Turchia sulla questione armena: c’erano nomi come la scrittrice Elif Shafak, il direttore del giornale turco armeno Hrant Dink poi ucciso dai nazionalisti, docenti di grande levatura come Murat Belge. Ma la conferenza fu rinviata, e poi si svolse solo sotto enormi misure di sicurezza. Lo scorso marzo un tribunale ha deciso l’arresto di 3 professori con l’accusa di “propaganda terroristica” a favore del PKK curdo. Gli accademici avevano difeso in una conferenza stampa un appello per la soluzione pacifica della questione curda, già sottoscritto a gennaio da 1128 professori di 89 atenei, subito accusati da Erdogan di “tradimento della patria”.
Qui il tratto di mare che divide in due Istanbul è percorso da una serie di accademie. Quella più prestigiosa, in alto, è l’Università del Bosforo. Ci ha studiato il premio Nobel, Orhan Pamuk. E sembra di stare a Oxford: solide pietre compongono gli edifici, legni pregiati nell’aula magna, e lo scrittore più famoso di Turchia ogni tanto fa capolino nei convegni accomodandosi in ultima fila ad ascoltare. Un professore scuote la testa adesso, e mormora solo: «Situazione orrenda».
Sulla sponda dello Stretto, parte europea della città, altri due centri di studio. La Bau, come viene chiamata l’Università Bahceshehir, dove i ragazzi siedono nella bella caffetteria che dà direttamente sulle acque. Fumano, giocano a tavla, la dama che si trova in tutti i locali della Turchia, e commentano sottovoce l’arresto del rettore di Ankara: «È una vergogna. Ma dove pensano di arrivare? Mica possono smantellare l’intero sistema dell’Istruzione». Più avanti c’è l’Università Galatasaray. In cima, sulla facciata di colore bordeaux, un grande orologio segna il tempo. Ma dentro è vuota è la bella aula moderna delle conferenze, e chiuse le aule per via della pausa estiva. Dall’altro lato della strada, salendo, c’è l’Università di Yildiz. Però l’intero blocco è chiuso da agenti con mitra e corpetti antiproiettile. Due colossali tir, di colore arancione, sono posti da un lato e dall’altro della zona per impedire l’accesso al vicino Museo di Yildiz. C’è uno spiegamento enorme di forze di polizia. Si può solo passare a fianco del bunker grigio del Mit, il centro dei servizi segreti turchi. C’è gran silenzio, qui. Ma proprio mentre un pesante cancello si apre si odono distinte le urla strozzate di una donna che piange e implora.
Ieri, per il colmo dell’ironia, il quotidiano Hurriyet aveva pubblicato un corposo inserto sul mondo universitario: foto dei campus, indirizzi, facoltà. E in prima pagina la foto di un giovane sorridente, vestito con il tocco e la toga. I giornali di oggi già portano l’immagine del rettore di Ankara: è a testa bassa, in manette.