Corriere della Sera, 20 luglio 2016
Le belle villeggianti pallide dell’estate ’54
Rcconteremo ai nostri nipoti: «Ci fu un’estate, quella del 1954, al termine della quale le donne tornarono dal mare, tornarono dai monti bianche come il latte, pallide come statue di avorio. A noi che eravamo rimasti in città mancò, alla fine dell’agosto, ai primi di settembre, quel caro postumo segnale dell’estate trascorsa, della felice estate che, per tanti anni, ci veniva portata dal riapparire delle nostre donne, delle belle donne, rinnovate dal sole, rese brune dal sole, arrosolate, al giusto punto di cottura, dal sole. Nelle città dove ci aveva tenuti fermi il nostro lavoro il sole era il nostro nemico: lo respingevamo abbassando le tapparelle, e marciando per le vie cautamente nelle sottili strisce d’ombra. Per loro, per le nostre donne, no; il sole era stato il grande amico: esse si erano spogliate tutti i giorni per ricevere le sue carezze, riducendo il proprio abito ai minimi termini, gareggiando in nudità quasi con le Ninfe e con le Nereidi. Bene rosolate, bene abbrustolite, croccanti come panini appena usciti dal forno, croccanti come le prime castagne arrosto.
Veneri di Tahiti
Ma l’estate 1954 le tradì: il sole del 1954 le rimandò a casa bianche come grandi fiori di magnolia, bianche come fiori di gardenia; e il sole rubò qualcosa anche a noi sedentari, che non ci eravamo mossi dalla città: rubò lo spettacolo delle belle «selvagge» che rientravano nella civiltà con i volti bruni e ardenti di addomesticate e ammansite Veneri di Tahiti e di Honolulu.
Parleremo così ai nostri nipoti: racconteremo che l’Ottocento era stato il secolo delle donne pallide, dai visi di giglio, dai colli di cigno: il secolo della cipria bianca, il secolo dei grandi cappelli di paglia che smorzavano il calore del sole e leggermente ventolavano sul volto e sulle spalle: il secolo delle velette color lillà per attenuare il riverbero del calore estivo sulle guance color di tenerissima rosa. Anche i profumi avevano nomi di fiori candidissimi: le belle giovinette sapevano di tuberosa di mughetto e di gelsomino. La letteratura di un intero secolo aveva ignorato la tintarella: Anna Karenina, Emma Bovary e la Signora dalle Camelie non si erano mai «abbronzate». Nessuna delle donne amate da D’Annunzio aveva mai fatto un bagno di sole: esse, se mai, avrebbero voluto fare bagni, se fosse stato possibile, di velluto nero, o ancora più spiritualmente, bagni di luna. Di personaggi abbronzati, nell’opera di D’Annunzio,c’è solamente la «Figlia di Jorio»; ma, per contrasto, immaginate quanto doveva essere pallido e lunare Aligi, dopo aver dormito settecento anni.
Il Novecento colorato
Poi, lentamente cominciò l’abbronzatura del Novecento: vedemmo tornare dai monti e dal mare le nostre donne con visi e braccia da mietitrici, con gambe da mondariso. Finì il tempo delle estati evanescenti, dei coloriti da convalescente; la moglie del capo-divisione apparve sulla spiaggia con un colorito da moglie di pirata: le giovinette stavano sugli scogli a prendere una tintarella da figlie di corsaro.
Al ritorno dalla villeggiatura sembrava scendessero dai treni comitive di ardenti polinesiane, come quelle amate da Gauguin: la gamma ideale dei colori femminili fu ricercata tra il cioccolato al latte e i «biscotti della salute», fra la terra d’ocra e la crosta del pane integrale o del panettone (...). Era il tempo in cui, al ritorno nella quiete notturna dei boudoirs cittadini, liberandosi dalla vestaglia le donne per le quali avevamo «sognato sembravano vestite con il bruno maglione dei topi d’albergo», sul modello dell’antico Fantomas.
L’estate del 1954 ci ha forse riportati al candore? (...) e già ci par di udire il passo lento, la voce fioca e languente, il sospiro romantico di Anna Karenina e di Emma Bovary, dalle guance color delle ali delle farfalle bianche, fiori lentamente spalancati sotto alle rugiade notturne.
Stralcio dell’articolo intitolato «Tornano le belle villeggianti pallide come eroine dannunziane» pubblicato sul Corriere d’Informazione del 28-29 agosto 1954.