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 2016  luglio 20 Mercoledì calendario

Quando sono i numeri (di Pagnoncelli) a raccontare l’Italia

Nando Pagnoncelli, 57 anni, bergamasco, ricercatore sociale e sondaggista di grido con la sua Ipsos, ha scritto un libro che dovrebbe essere adottato nella scuole superiori italiane. Si intitola Dare i numeri, Edizioni Dehoniane Bologna, una pubblicazione agile, un centinaio di pagine, con un saggio di Ilvo Diamanti, che documenta, in maniera plastica, la percezione distorta che noi italiani abbiamo della realtà e dei suoi problemi. Una ricerca accurata, infatti, nel 2014, ha misurato lo sfasamento fra i dati di fatto del nostro Paese e come lo pensiamo, secondo varie problematiche, dalla disoccupazione al numero di immigrati, dal tasso di astensioni alle elezioni a quanto sia ampio il fenomeno dei giovani che non studiato né lavorano. Scostamenti importanti, vere e proprie cantonate: pensavamo che i disoccupati fossero al 49% quando stavano al 12, che ci fosse un 30% di immigrati e invece era il 7, e via misconoscendo. Di questi e di altri problemi, abbiamo infatti un’idea clamorosamente fuori misura, a volte secondo una forbice incredibilmente ampia, tanto che, rapportati ad altri Paesi europei, abbiamo il massimo nel cosiddetto Indice dell’ignoranza.
Pagnoncelli lei se lo immaginava, o è stata una sorpresa anche per uno che lavora in demoscopia da una vita come lei?
«Alla Ipsos facciamo più di duemila ricerche all’anno, è chiaro che lo sapessimo. Purtroppo è un dato ricorrente e per questo ci sembra giusto dargli pubblicità».
Perché importante?
«Perché in politica cresce, giustamente, l’attenzione alle opinioni dei cittadini, ma c’è anche un rischio, per chi è chiamato a prendere decisioni, ossia i politici e gli amministratori».
Quale?
«Che le decisioni siano prese sulla scorta delle opinioni dei cittadini, non sempre fondate. Insomma, in una sorta di cortocircuito. Può accadere che dei leader, da pifferai magici, come vengono rappresentati, capaci di incantare schiere di elettori, diventino essi stessi, topolini al seguito di quel grande suonatore che è la pubblica opinione».
Che, oltre a prendere granchi, come lei scrive, spesso non è neppure granitica nelle proprie certezze e quindi nel proprio consenso.
«Esatto, quel consenso, sulla base del quale il politico ha deciso, spesso autoalimentato da convinzioni infondate, altrettanto frequentemente evapora a stretto giro. Un circolo vizioso».
Senta, per venire a una polemica che ha accompagnato questi due anni e mezzo di governo di Matteo Renzi, a leggere quali e quante male-certezze abbiamo in testa, dobbiamo da ragione al presidente del Consiglio? C’è una rappresentazione sbagliata dell’Italia? Insomma, il gufismo è un dato strutturale?
«Sui gufi ha ragione Renzi, secondo questi dati. Ma non riguarda solo il suo governo, ma qualsiasi esecutivo, col quale a un certo punto, inesorabilmente, la luna di miele giunge al termine».
Dunque siamo catastrofisti per vocazione?
«C’è effettivamente un dato antropologico, una innata tendenza a sminuire la realtà di questo Paese, a cui si somma un’ignoranza di alcuni dati di fatto».
Facciamo un esempio, Pagnoncelli?
«Quante volte abbiamo sentito dire che siamo al livello della Grecia?».
Spesso, un evergreen nelle discussioni da bar o da coda alla cassa del supermercato.
«Chi lo afferma, spesso, non sa che la nostra è la seconda manifattura d’Europa, dopo la Germania, con un tessuto di 4,5 milioni di imprese. Da un lato ignoriamo, dall’altro amiamo parlare male».
Cupio dissolvi, dicevamo i latini.
«È una delle tante nostre ambivalenze: da un lato il riconoscimento di molti aspetti positivi di questo Paese, chessò, la ricchezza dei mondi associativi e del volontariato, la capacità di trovare uno stile diverso nei consumi, dopo la crisi del 2008, cose che un po’ ci inorgogliscono..».
Dall’altro?
«Dall’altro, l’immagine prevalente che diamo e che rappresentiamo, ossia quella di un Paese in declino. In questo senso, per tornare a Renzi, la disintermediazione funziona anche al contrario, perché ora lui paga, in termini di consenso, problemi che non riguardano il suo esecutivo».
Senta e l’escalation del terrorismo islamista può impattare con questa attitudine a vedere la realtà più nera di quanto lo sia veramente?
«Purtroppo sì. Lo dice chiaramente il dato della percezione delle dimensioni della comunità musulmana in Italia. Già al tempo di questa indagine, che è stata effettuata alla vigilia degli attacchi di Charlie Hebdo, in Italia stimavamo che il 20% della popolazione fosse di fede islamica, mentre la realtà era del 4%. C’è da aspettarsi che questa falsa percezione si dilati».
C’è un difetto di razionalità?
«In qualche modo. Ragionando dovremmo dire: se due persone ogni 10 sono musulmane, dovremmo vederne tantissime intorno a noi, e osservare luoghi di culto affollati un po’ dovunque».
Perché ingigantiamo i nostri problemi?
«Uno psicologo sociale americano, che nel libro cito, Daniel Herda, dice che la tendenza a esagerare cela una grande richiesta d’aiuto: queste percezioni sono figlie delle nostre paure».
Per la verità non siamo i soli, anche in giro per il mondo, questa tendenza all’ampliare i problemi è costante.
«Infatti, colpisce come anche gli Stati Uniti ci tallonino nell’Indice dell’ignoranza. D’altra parte Donald Trump sembra far leva sistematicamente in questa iperdilatazione dei problemi».
Ha funzionato così anche per la Brexit?
«Abbastanza. Anche perché, se ci pensa, le stesse ragioni contro l’uscita del Regno Unito dall’Europa erano tutte fondate sulle paure. Anche la comunicazione politica del “Remain”, ossia a favore della permanenza, era giocate sugli incubi: dalla svalutazione della sterlina al crollo del mercato».
Nel caso del referendum britannico, peraltro, i sondaggisti sono finiti sul banco degli imputati per le stime errate.
«Conservo un sms del mio omologo britannico che, alle 22 della sera precedente il voto, mi ha scritto: «Leave 52%». Quindi noi eravamo nel giusto. Ma quello era un voto davvero difficile da prevedere perché i due schieramenti erano molto vicini, con l’elettorato giovane molto favorevole alla permanenza ma, allo stesso tempo, poco mobilitabile, come si è dimostrato nei fatti. E poi..».
E poi?
«E poi alla domanda su quanti pensassero di poter cambiare opinione, a ridosso del voto, la percentuale era elevatissima: 20%. È il cosiddetto “late swing”, lo spostamento dell’ultimo minuto. E per chi sonda, ossia lavora su un campione rappresentativo, è devastante. Infatti i colleghi hanno sovrastimato l’affluenza al voto dei giovani e sottostimato i cambiamenti dell’ultimo minuto finendo nell’occhio del ciclone».
Ma per tornare al nostro tema principale, ossia la misconoscenza della realtà e la propensione netta a ingigantire i problemi, qual è la causa? Che idea s’è fatto?
«Una delle componenti è il livello di istruzione, unita alla globalizzazione e alla ipermediatizzazione delle notizie. Prenda il caso delle violenze di genere».
Che cosa dimostra?
«Questione molto seria, tragica, ma nel complesso questo tipo di violenza sta calando, per fortuna. Siamo invece in presenza di femminicidi, di cui si parla molto di più che nel passato. Lo stesso vale per gli omicidi più in generale».
Ossia?
«Ossia sono oggi un terzo di quelli degli anni ’90, quando certamente le organizzazioni criminali mafiose erano più potenti e attive. Invece riteniamo che stiamo aumentando perché, su ciò, influisce il fatto che siano omicidi eccellenti o trasmissioni tv monografiche dedicate ai vari gialli. Da Cogne in poi, quanti ne abbiamo visti?
E anche il web, straordinario strumento, ci mette del suo. Lei nel libro cita la storia del “senatore Cirenga” che, due anni fa, schizzò da un parte all’altra dei socialnetwork, infiammando l’antipolitica.
«Sì, si diceva che questo senatore, inesistente peraltro, avesse presentato e fatto approvare da Palazzo Madama, un disegno di legge per istituire «un fondo per i parlamentari in crisi» di ben 134 miliardi».
Marzo 2014: ben 36mila persone online firmarono o sostennero petizioni indignate.
«Esatto. Né l’abnormità della cifra, né l’anonimato del senatore, e nemmeno la conta, sballata, di favorevoli e contrari, largamente superiore ai 315 senatori previsti dalla Costituzione, indussero qualcuno ad annusare la bufala».
Questo cosa dimostra, Pagnoncelli?
«Che spesso, nell’intolleranza crescente, si usa la Rete più per cercare conferma ai propri giudizi, i quali diventano pregiudizi, che per informarsi. Anziché il luogo del confronto, i social diventano via di fuga».
Oltre a Facebook, regno degli amici, ci si accomoda la time line di Twitter, ovvero chi si segue, in modo che confermi le nostre idee.
«Una tendenza che riguarda tutti gli argomenti: guardi che succede sull’animalismo, sul veganesimo, sui vaccini, sulle sperimentazioni animali: Internet serve a corroborare i propri giudizi e, fatalmente, i propri pre-giudizi».
E anche in politica c’è un riverbero. Anzi un grande utilizzatore dei social come lo stesso Renzi, in passato, ha polemizzato con i propri compagni di partito che si facevano condizionare “da quattro troll”, ossia i disturbatori aggressivi di Twitter.
«Il rischio di assumere quel pezzo di realtà come realtà totale, lo si è toccato con mano alle presidenziali del 2013».
Che cosa accadde?
«Che tanti giovani parlamentari, eletti da poco, nativi digitali, e che per consuetudine compulsano la tastiera degli smartphone furono portati a pensare che un nome espresso dalla cerchia dei propri followers, fosse gradito agli Italiani».
Si riferisce al caso di Stefano Rodotà che, di colpo, in quella elezione, si affermò nella rosa dei candidati al Colle?
«Esattamente. Con tutto il rispetto e la stima che avevo e che ho per il professore, Rodotà non andò mai oltre il 15% di notorietà presso gli Italiani.