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 2016  luglio 20 Mercoledì calendario

La prova del Dna è davvero infallibile?

Sempre più spesso nel processo penale la prova del Dna rappresenta una delle colonne dell’impianto accusatorio al fine di «collocare» il colpevole sul luogo del delitto o per recuperare materiale biologico sulla vittima. Quella genetica resta l’analisi più definitiva e meno soggettiva rispetto alle tecniche forensi tradizionali: la sua potenza è talmente alta da consentire l’esame su quantità irrisorie di materiale. Da qui, tuttavia, sorgono molte questioni controverse sulla modalità di raccolta, sulla conservazione e sul trattamento dei Dna nei laboratori.
Sono due prestigiose riviste a metterci in guardia dai possibili rischi legati al Dna: «Nature», nel 2015, aveva titolato «La prova forense del Dna non è infallibile», mentre «Scientific American», nel giugno di quest’anno, ammonisce: «Quando il Dna implica l’innocenza». Entrambe riportano un caso rappresentativo: nel 2012 un senzatetto, Lukis Anderson, fu accusato dell’omicidio di Raveesh Kumra, multimilionario della Silicon Valley, sulla base del Dna. L’uomo rischiava una possibile condanna a morte. Ma Anderson non era colpevole, avendo un alibi solido: ubriaco, era stato ricoverato in ospedale ed era rimasto sotto costante supervisione nella notte dell’omicidio. Più tardi il suo team legale scoprì che il Dna di Anderson era finito sulla scena del crimine, nella residenza di Kumra, a causa dei paramedici. Questi avevano prima assistito l’homeless e poi avevano tentato di rianimare il milionario, trasferendo su di lui tracce dell’innocente Anderson.
La questione, quindi, ruota spesso intorno al concetto di «touch Dna», profili genetici di indagati e presunti colpevoli che sono stati rilevati in laboratorio da una manciata di cellule della pelle. Cynthia M. Cale, dell’Università di Indianapolis, autrice dell’articolo di «Nature», ha condotto un test significativo: un individuo che usa un coltello da bistecca dopo aver stretto la mano a un’ altra persona potrebbe trasferirne il Dna sul manico del coltello stesso. In un quinto dei campioni raccolti, infatti, la persona identificata come il principale «contributore di Dna», in realtà, non aveva mai toccato il coltello.
Il punto è che i ricercatori non mettono in dubbio il risultato del Dna: se l’analisi evidenzia la presenza di materiale genetico su una mutandina, è certo che quel Dna sia lì, ma ciò che bisogna verificare è come ci sia arrivato e come sia stato trattato dagli esperti forensi. Dalle pagine di «Scientific American» Erin E. Murphy, professore di diritto alla New York University e autore del saggio «Il lato oscuro del Dna», mette in guardia: «Speriamo sempre che il Dna venga in nostro soccorso, ma è ancora parte di un sistema imperfetto. Se non applicano scetticismo e moderazione, potranno verificarsi tanti errori giudiziari».