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 2016  luglio 20 Mercoledì calendario

Antonio Franchini, direttore editoriale della Giunti, è sempre pronto a farsi sedurre da uomini e donne

La sua prima scoperta fu Lara Cardella, autrice siciliana che fece il botto conVolevo i pantaloni scatenando furiose polemiche tra i suoi concittadini di Licata, accusati di atteggiamenti voyeuristici e maschilisti. Era l’89, il mondo dei libri si stava complicando e Antonio Franchini, giovane editor per gli Oscar Mondadori, ammette che si accorse della scrittrice ma non del personaggio. «Aveva vinto un nostro concorso. Il libro mi piaceva, fui contento di pubblicarlo. Poi andò al Maurizio Costanzo show, fu il putiferio e il successo. Il bello è che se allora avessi fatto in tempo a darle un consiglio, le avrei detto, sbagliando, di non fare quelle affermazioni».
Il talent scout è un mestiere complicato. Franchini, che ha da poco assunto la direzione editoriale per la narrativa di Giunti, lo ha esercitato in tanti anni a Segrate con risultati a volte eccellenti a volte leggendari: Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi (titolo suo, imposto all’autore e fortunatissimo), Saviano con Gomorra («insieme ad altri, però», cita Helena Janeczek e Edoardo Brugnatelli), Alessandro D’Avenia (Bianca come il latte rossa come il sangue), Pennacchi, Piperno, Pietrangelo Buttafuoco. E Antonio Scurati, cui pubblicò il primo romanzo. 
Difficile trovare un comune denominatore...
«E questo per me è un complimento. Vuol dire che sono un lettore il più possibile aperto».
Anche uno scrittore. Giorgio Ficara, nel recenteLettere non italiane(Bompiani) vede nel suoSignore delle lacrime(Marsilio) un testo tra i più significativi nella recente letteratura italiana.
«Uno scrittore pensa tutto il giorno ai suoi libri. Io no».
Lei pensa ai romanzi degli altri. Che cosa cerca, che cosa fa scattare la sua decisione?
«Sono prontissimo, sempre, a farmi impressionare e sedurre. Mi basta magari un incipit. E soprattutto la capacità che ha un autore di “tirarti dentro”, di comunicarti una sorta di urgenza, di conquistare la tua attenzione».
Una scelta soggettiva.
«Sì, e quando un libro ti ha parlato, tu sei quasi costretto a volerlo trasmettere a più persone possibili. È lo scatto dell’editore. Ci sono molte vie alla seduzione, ma l’incontro dell’editore con il romanzo di cui riuscirà a fare un successo è un vero incontro sentimentale. Fai la fortuna sua, e anche la tua».
Una specie di innamoramento.
«Qualcosa del genere, visto che poi la gestione dello scrittore, del personaggio, è un altro paio di maniche. Ma a me all’inizio non interessa affatto il personaggio, anche perché mi occupo di narrativa e non di quel settore che viene definito “varia”. Mi interessa il libro».
I suoi maggiori successi sono tutti maschi.
«Ho una certa fama di lettore fortemente “maschile”, ma non è vero. Ho pubblicato per Mondadori la Mazzantini, che è una scoperta non mia, ma di Cesare De Michelis – la lanciò con Marsilio -; e sempre sul versante femminile vorrei ricordare Silvia Ballestra: la pubblicammo insieme, noi e Casalini, l’editore di Transeuropa. La vera scommessa furono però i nostri “Oscar original”».
Occasioni perdute?
«Tante, ovviamente. Per esempio, nel ’91 rifiutai Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo, che nel 2000 fu un trionfo internazionale. Mi era arrivata una scheda di lettura che parlava di un ottimo libro per ragazzi, mentre io pubblicavo narrativa per adulti. Va notato che quando uscì raccontava ormai una gioventù del decennio precedente. Era stato in anticipo sui tempi, in qualche modo oggi entrerebbe nel grande filone dei libri cosiddetti “young adults”, un fenomeno enorme, nuovo, ancora da studiare, un vero evento culturale. È la letteratura del college, fra adolescenza e sesso, che leggono i ragazzi di quell’età ma anche e in modo sempre crescente gli adulti».
È lì che deve guardare oggi un talent scout?
«Anche lì. La situazione è cambiata moltissimo rispetto a quando io, nato nel ’58, ero un giovane aspirante editore. Allora si pubblicavano meno libri, gli editor storici avevano un controllo molto maggiore sui loro mondi di riferimento».
Il lavoro era più facile?
«In fondo sì. Quando sono entrato nell’editoria, già le cose stavano cambiando. Ora più passa il tempo e più sono incerto sui miei parametri di riferimento. Bisogna prescindere, se non dai gusti personali, almeno da certi pregiudizi. La valutazione letteraria si basa molto sui pregiudizi, è inevitabile. Quella editoriale deve essere spregiudicata. Oggi manca una visione egemone dell’arte in generale, le case editrici hanno conservato la loro immagine, ma annacquata...».
Insomma, tutti fanno tutto? Ovvero non c’è più distinzione tra letteratura e intrattenimento?
«Questa differenza comincia ad assottigliarsi. Si creano zone grigie. Prenda Stephen King: è un autore di genere, ma di tutti i generi, e non lo si può certo liquidare come tale. La sua provincia americana è un capolavoro».
Risultato?
«In una continua rottura di confini dove i mondi si mescolano, lo scopritore di talenti deve avere molte più competenze. Deve conoscere letteratura e generi, le loro interferenze, i fenomeni nuovi come il “young adults” o il fantasy».
E poi riscrivere?
«Questa è una vecchia storia. Gli editor di un tempo facevano riscrivere o magari riscrivevano di persona. Ma un altro Gordon Lish, che trasformò Raymond Carver imponendogli uno stile, oggi non potrebbe più esistere. Molti vedono l’editing come un agone, uno scontro, una lotta...».
E lei è un lottatore.
«Sì, frequento le palestre, amo la lotta e il combattimento ma anche la canoa».
E non combatte con gli autori?
«No, proprio perché ho fatto tanta lotta. Il lavoro strenuo sul testo è una possibilità rara di alcuni editori specializzati. Si può fare pochissime volte, e non con tutti. L’editing come strazio o lacerazione può avvenire, forse, una volta sola nella vita».
A lei è avvenuto?
(Silenzio)
Riformulo la domanda in modo esplicito. Si è a lungo discusso diGomorra, e di quanto lei ci abbia messo le mani.
«Con gli autori si discute sì, ma di struttura e temi. Per quanto riguarda Saviano, si scatenò una ridda di ipotesi e indiscrezioni, appena il libro uscì. Ma non aveva senso. Roberto era uno scrittore di vent’anni, con le sue increspature, l’ambizione di dire tutto, quella stessa smisuratezza che può essere un valore. Mica potevamo metterci lì a limarlo».

Insomma, quanto è intervenuto sui suoi autori?
«Pochissimo».
Con qualche eccezione?
«Un buon editor è tenuto alla riservatezza, almeno fino a quando decide di scrivere le memorie, nel mio caso tra molto tempo. Del resto accade spesso che i recensori, per un libro su cui magari abbiamo lavorato parecchio, denuncino l’assenza di editing. Al contrario, se ce ne asteniamo, ecco che molti giurano di riconoscerne vistosissime tracce. E, va da sé, ce lo rinfacciano».