La Stampa, 19 luglio 2016
Il primo mese di Virginia e Chiara
Jacopo Iacoboni per La Stampa
Virginia arriva con la pioggia, si potrebbe dire parafrasando un grande romanzo di Alvaro Mutis. Nel senso che per vedere il cambiamento promesso in modo tanto roboante dal Movimento a Roma, se va bene, bisognerà attendere l’autunno. Se cambiamento arriverà. Il primo mese della Raggi sindaco è stato un tormento in primis per lei; è quasi come se lei – che ieri festeggiava anche il compleanno (a casa: mazzi di rose e niente feste su barconi sul Lungotevere) – non fosse ancora davvero partita.
Zero delibere all’attivo. La prima riunione vera di giunta che arriverà solo oggi (dedicata all’assestamento del bilancio; seguirà incontro con Tronca). Il reddito di cittadinanza, mega promessa elettorale, che ovviamente non si potrà fare a breve (prima bisogna, appunto, vedere bene il bilancio comunale). Raggi sta cercando di muoversi per incontrare Renzi e Padoan, e ottenere la collaborazione del governo sulla ristrutturazione del debito di Roma: una partita poco appariscente ma su cui si gioca tantissimo, e lei non è stata male.
La giunta è nata però con estrema fatica. Raggi ha subìto pressioni forti; interne, dal M5S,ed esterne: tutti, da Davide Casaleggio a Di Maio alla Taverna a Di Battista, le hanno piazzato uomini. Il suo capo di gabinetto designato, Daniele Frongia, è stato impallinato dalla Lombardi (Raggi ha resistito e l’ha messo vicesindaco). E allora la sindaca s’è impegnata a revocare la scelta di Daniela Morgante, che percepiva amica della Lombardi. Vittoria politica parallela al siluramento della Faraona dal direttorio romano; senonché proprio ieri la Lombardi è stata, con un elemento di farsa, rimpiazzata da Stefano Vignaroli; il compagno della Taverna.
Lombardi i suoi uomini nelle commissioni li aveva già piazzati, con un manuale Cencelli che La Stampa rivelò. E avrebbe almeno cinque consiglieri comunali suoi (oltre a tutta la capigruppo, il presidente De Vito, il capogruppo Paolo Ferrara, la segretaria Bernabei). Insomma, sul piano politico hanno sfibrato la Raggi, l’hanno accerchiata, esposta alla mercé delle pressioni. Lei stessa ha poi le sue, di relazioni: ha fatto nomine discutibili (il panzironiano Marra, vicecapo di gabinetto, che poi non è stato revocato), ma politicamente s’è anche difesa in maniera non scontata, ha cercato di rendersi autonoma in un brutto contesto. Questa è Roma, e il Movimento romano.
È inevitabile che le cose da fare siano passate in secondo piano. Al Colosseo sono riapparsi i camion bar (proficuo asset dei Tredicine che era scomparso con Marino; c’è stata anche un’infelice frase del neo assessore Meloni, uomo-Casaleggio, in favore di questi discussi ambulanti, poi parzialmente corretta). Gli odiosi centurioni paiono rinati. Raggi ha invece tenuto bene il punto contro lo sgombero di via Cupa, dove sono accampati i migranti del Baobab. In pessime condizioni, sì, ma il prefetto voleva mandarli via con la forza pubblica, alla destrorsa; Raggi s’è opposta, e ha fatto bene. Ma la soluzione non ce l’ha, e ha chiesto un tavolo al ministro dell’Interno. Sapete chi sia.
Sul piano mediatico ha avuto i successi maggiori, le tre mosse di comunicazione sono state intelligenti: andare a Tor Bella Monaca sull’onda di un video virale in cui dei bimbi giocavano in mezzo ai topi. Affacciarsi sul Lungotevere a far ripulire i cassonetti. Andare a Rocca Cencia. L’immagine è di una sindaca che non sta chiusa nella torre d’avorio, sta in mezzo alla gente, nelle periferie. Ottimo. Ma a Rocca Cencia c’è poi il problema di un impianto di smaltimento dei rifiuti che l’Ama non ha messo in condizione di funzionare bene, e tantissimi sono i malumori sulla neo assessora all’ambiente, Paola Muraro, che per dodici anni ha ricevuto ottime consulenze proprio all’Ama: è il nuovo che avanza o il conflitto d’interessi eterno all’italiana?
Su Acea l’idea del M5S era l’acqua pubblica. E Raggi questo voleva, compreso silurare il potente ad Alberto Irace, uomo stimato da Caltagirone. Sta vincendo invece la linea dell’assessore al Bilancio, Marcello Minenna, e di Di Maio, un appeasement con questa azienda, vera camera di compensazione del sistema-Roma. E a settembre dovrà iniziare una partita di nomine appetitose in tutte queste partecipate. C’è da sperare che Virginia arrivi con la pioggia.
Andrea Rossi per la Stampa
A differenza di Virginia Raggi, la scalata di Chiara Appendino al piano nobile di Palazzo Civico è stata indolore. I problemi sono venuti dopo. La notte in cui ha archiviato ventitré anni di governo del centrosinistra a Torino, aveva pronta la giunta per nove undicesimi e ha composto le due caselle mancanti nel giro di una settimana. Senza interferenze. Anzi, se c’è un dato che contrappone l’esperienza torinese ai travagli romani è proprio questo: Appendino da mesi può contare sul sostegno compatto della pattuglia di parlamentari piemontesi, sull’appoggio dei consiglieri regionali e della quasi totalità degli attivisti. I (pochissimi) dissidenti sono stati isolati, o si sono emarginati da sé, già molto tempo fa.
Ecco perché partire è stato semplice. Giunta di tecnici, scelti attraverso i curricula: un commercialista al Bilancio, un professore di Architettura all’Urbanistica, un ingegnere dei Trasporti alla mobilità, un ex atleta allo Sport. Competenze ma anche segnali trasversali ai vari mondi che l’hanno appoggiata: il suo vice, l’assessore all’Urbanistica Montanari, proviene dai movimenti per i beni comuni e ha un profilo marcato a sinistra; Sergio Rolando, l’uomo dei conti, è stato direttore in Regione ai tempi di Cota ed è vicino al centrodestra.
Il difficile è venuto dopo. Nemmeno il tempo di insediarsi ed è scoppiato il caso Salone del Libro: cambiata l’aria in Comune, gli editori – che da tempo meditavano lo strappo ma sapevano che con Fassino al timone sarebbe stata dura – hanno fatto sapere di voler trasferire la manifestazione altrove e cominciato a flirtare con Milano.
Appendino aveva due possibilità: fare spallucce, in fondo è appena arrivata e se Torino perdesse il Salone non sarebbe certo colpa sua; oppure battersi per difenderlo sapendo che sarebbe una sconfitta per la città e quindi anche per lei. Ha scelto la seconda opzione e ha fatto asse con il presidente della Regione Chiamparino, in un certo senso il fondatore di quel «sistema Torino» che è stato cavallo di battaglia della sua campagna elettorale.
La coppia sta mostrando una imprevedibile affinità che va oltre la necessità di mantenere buoni rapporti di vicinato e che potrebbe disturbare la base grillina. E invece no. In questo primo mese Appendino ha saputo giocare con naturalezza su più tavoli: pragmatica quando c’era da fare il sindaco e, ad esempio, non perdere i 250 milioni promessi dal governo per il Parco della Salute, progetto che non le è mai piaciuto; barricadera quando voleva lanciare segnali ai suoi. Così si spiega il siluro sganciato sul presidente della Compagnia di San Paolo Profumo il giorno dopo la vittoria: si dovrebbe dimettere. Sapeva di non poterla spuntare (la Compagnia è ente autonomo), ma ha affondato comunque il colpo. E così sulla Tav, altro tema caro ai Cinquestelle: quando il ministro Del Rio ha annunciato il nuovo progetto low cost, ha subito replicato che per lei cambiava nulla, l’opera resta inutile.
Ha sfiorato l’incidente diplomatico anche con la Curia: la delega alle politiche per le famiglie (anziché per la famiglia) istituita in giunta le è costata la reprimenda del vescovo. Gli ha chiesto un incontro chiarificatore ma ha tirato dritto, sfilando, con fascia, in testa al corteo del Torino Pride. Qualche giorno prima era andata alla chiusura del ramadan. In gonna.