la Repubblica, 19 luglio 2016
Alla convention di Cleveland, tra i pugni duri, gli amici e i parenti di Donald Trump
Federico Rampini per la Repubblica
«Ci vuole il pugno duro, c’è bisogno di un vero leader», dice Donald Trump all’apertura della convention repubblicana. Make America Safe Again, lo slogan del primo giorno è potente. Rendere l’America sicura, di nuovo, come ai bei tempi: quando il potere era saldamente in mano ai bianchi. Il circo spettacolare di Cleveland si è aperto ieri con un minuto di silenzio in memoria dei tre poliziotti uccisi il giorno prima a Baton Rouge da un giovane afroamericano. In una «vera imboscata», confermano le indagini. L’assassino aveva inneggiato al cecchino di Dallas, l’altro afroamericano che dieci giorni prima aveva ucciso cinque poliziotti. A questa «vendetta nera» reagiremo col massimo della forza, assicura Trump. All’avvio della convention lui getta benzina sul fuoco, s’impadronisce di un’accusa tremenda lanciata dal capo del sindacato poliziotti di Cleveland. «Barack Obama ha le mani sporche di sangue», ha detto Stephen Loomis che dirige la Cleveland Police Patrolmen’s Association, accusando il presidente di istigare la violenza dei neri con le sue parole di condanna degli abusi di polizia. Trump lo riecheggia, irride alle dichiarazioni di dolore e di condanna della violenza che Obama ha pronunciato dopo Dallas e Baton Rouge: «Qualche volta le parole che dice sono ok. Ma poi osservo il body language (linguaggio gestuale, ndr) e c’è qualcos’altro dietro. Sentimenti cattivi».
Nelle stesse ore in cui Trump cavalca l’ultima teoria del complotto, insinuando che il presidente eccita i violenti, da Baltimora arriva una notizia che non rasserena gli animi. Un ufficiale è stato scagionato per la morte di Freddie Gray, il 25enne nero che ebbe il collo violentemente fratturato mentre veniva trasportato su un furgone di polizia nell’aprile 2015. È un’altra ferita per tutti coloro che lamentano le discriminazioni delle forze dell’ordine. A un bivio drammatico si trova il movimento BlackLivesMatter. Nato per denunciare le violenze e gli abusi della polizia, ha avuto grande seguito e non solo tra i neri. Adesso è costretto a vedersela con due nemici: da una parte il razzismo, dall’altra gli individui violenti che vogliono fare giustizia da soli. La recrudescenza della tensione razziale offre una magnifica opportunità al tycoon immobiliare. Legge e ordine, in tempi di turbolenze la ricetta ha funzionato in passato: la “maggioranza silenziosa” serri i ranghi, come nel 1968 quando le piazze traboccavano di manifestazioni ma alla Casa Bianca andò il repubblicano Richard Nixon.
Make America Safe Again, lo slogan viene sottolineato dall’intervento alla convention di Rudolph Giuliani. L’ex sindaco di New York fu uno dei primi a dare l’endorsement a Trump ed è il personaggio ideale per rafforzarne le credenziali in questo campo. Giuliani fu magistrato di punta, come sindaco viene identificato con la “tolleranza zero” e il crollo della criminalità a New York. Ma risale a lui anche il dilagare di pratiche discriminatorie nei fermi di polizia, che ha costretto l’attuale sindaco a una profonda revisione dei metodi del New York Police Department.
Make America Safe Again si declina anche sulla sicurezza nazionale contro il nemico esterno. Nella prima giornata della convention sfilano sul podio i militari pro-Trump, compresi i marines che combatterono a Bengasi nelle tragiche giornate dell’assalto all’ambasciata Usa. Riportano alla memoria una delle pagine più oscure di Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato, la morte di quattro diplomatici Usa in quell’attacco, le accuse di negligenza criminale lanciate dai repubblicani.
A 13 mesi dal lancio della sua candidatura Trump celebra il suo trionfo davanti a 2.472 delegati e 15.000 giornalisti. Qualcuno cerca di guastargli la festa, fino all’ultimo. Un gruppo di irriducibili nostalgici del Grand Old Party di una volta non si rassegna all’ascesa di questo populista dai toni estremi. All’apertura dei lavori questi militanti del Never Trump (Mai Trump), minoritari ma agguerriti, tentano di mettere all’ordine del giorno una votazione sulle regole della convention stessa: per dare libertà di coscienza ai delegati e quindi consentire delle manovre a favore di candidature alternative. Irrealistico. La presidenza del partito li boccia, scoppiano urla e contestazioni, ma la loro è una battaglia persa.
Vittorio Zucconi per la Repubblica
Nella “Spaceship Trump”, nel palazzo dello sport di Cleveland trasformato nell’astronave di Donald l’Extraterrestre dalla peluria arancione, va in scena lo spettacolo che intenerisce i cuori: la famiglia. La prima ad apparire è stata la moglie in carica: Melania Knavs. A lei, alla terza sposina della settuagenaria creatura dai capelli carota, ai suoi «occhi bellissimi color acqua» come lei stessa si descrive con immodesta obiettività e al suo accento slavo – «Gut Ivinink Amerika» – poi ai figli suoi e delle altre mogli, ai nipoti, sparsi come sentinelle in tutte le serate, è spettato ieri sera il compito di fare apparire umano colui che per milioni di americani e per il mondo resta un alieno.
Alla famiglia, ultimo rifugio della politica, anche Donald Trump si appiglia, secondo una formula di successo inventata 56 anni or sono da John F. Kennedy quando calò la carta Jacqueline Bouvier, per rintuzzare la rimonta nei sondaggi di Nixon. Fallita l’apoteosi politica e la festa della grande riconciliazione repubblicana, di fronte al rifiuto sprezzante di tutti gli ex presidenti ancora vivi come i Bush, degli ex candidati alla Casa Bianca, delle star dello spettacolo e dello sport che hanno dato buca, il grande show promesso è divenuto una versione americana dei giochi in famiglia. Un “Family Affair” nel labirinto della sua vita coniugale.
Dopo la sempre statuaria signora in carica, nello splendore dei suoi 46 anni, Melania nata Knavs, divenuta Knauss e ora Trump, alla quale i registi dello spettacolo hanno affidato un breve discorso anche a causa di quell’accento che fa tanto immigrata, vedremo questa sera a cantare le laudi del padre, Donald jr, il primogenito avuto dalla sciatrice modella sposata in prime nozze, la ceca Ivana Zelnícková. Con lui, sarà Tiffany la figlia più giovane della seconda moglie che scalzò la mamma, Marla Maples. Tiffany fu chiamata così dal nome della gioielleria sulla Quinta Strada, un po’ da nuovi ricchi. Ma le loro madri, da tempo licenziate, non ci saranno.
Mercoledì, nel labirinto della figliolanza, toccherà a Eric Trump, figlio della prima moglie Ivana, il più somigliante al padre, fino all’apoteosi di giovedì quando Ivanka, anche lei figlia di Ivana farà l’annunciazione del messia della nuova grandeur americana. Nei suoi luminosi 34 anni, Ivanka, businesswoman di successo maritata con uno dei più ascoltati consiglieri del papà, è il volto umano dell’alieno, la persona che ammorbidisce gli spigoli dell’immagine paterna.
E sarà naturalmente anche un gran sciamare di bambini per le telecamere puntate sul ponte di comando della Trump Spaceship, perché ogni pubblicitario sa che bambini, cuccioli, gattini vendono. Vedremo correre felici, i piccoli attori del nuovo Donald Show in edizione umana, Kay, Donald III, Spencer, Tristano e Chloe, i cinque figli di Donald jr fra gli otto e i due anni. E poi Arabella e Joseph, figli di Ivanka, e non è esclusa l’apparizione strappacuore del neonato Theodore, che lei ha avuto quattro mesi or sono, in braccio alla mamma. Ooooohhh, risponderà il pubblico.
Neppure il più accanito anti trumpista potrà resistere a una famiglia Carosello dal dna ben temperato che intenerirà il cuore anche al conservatore più bigotto – un elettorato del quale Trump ha bisogno – perplesso di fronte a ben tre matrimoni, a un rimarchevole numero di avventure extraconiugali e a passate indulgenze verso il sesso libero e l’aborto, oggi naturalmente rovesciate per opportunismo e forse per raggiunti limiti di età. Quei fanciulli, quei figli saranno la prova che l’alieno è un buon padre di famiglie. Plurale.
Funziona sempre, come funzioneranno i due nipotini figli di Chelsea che Hillary e il devoto marito Bill presenteranno sul palco del loro show a Piladelphia la prossima settimana, come funzionò l’elegante Jackie, paravento di gran classe usato per nascondere le volgari infedeltà di Jfk, come funzionò il ritratto dinastico dei Bush, tre generazioni sotto la corona bianca dei capelli della matrona Barbarona. Trucchi nei quali il pubblico vuol cadere, come davanti ai conigli dei prestigiatori, perché è bello lasciarsi incantare, è dolce ammirare lo sguardo adorante di Nancy mentre accudiva il suo Ronald.
Il “Family Show” di Trump farà dimenticare per qualche ora le asprezze, la bellicosità, l’intolleranza che hanno intriso il suo messaggio. Farà meno paura. Dimostrando che con i migranti può essere tollerante e addirittura amarli. Purché siano femmine e bellissime.