Corriere della Sera, 19 luglio 2016
The Donald, il suo essere (ir)reale e la malattia d’America. Appunti di un grande scrittore americano sul fenomeno Trump
Ho riflettuto – o cercato di riflettere – su Donald Trump. Avrete notato che, a meno che Trump stia inveendo contro di noi da una selva di microfoni, in uno dei suoi abiti fuori taglia, pavoneggiandosi e facendo smorfie e boccacce alla Mussolini, agitando il suo dito corto o a volte puntandolo a forma di pistola contro la sua stessa zucca arancione, o scagliandosi contro qualcuno che, tra il pubblico ormai in diminuzione, lo fischia – o a meno che ci troviamo esattamente di fronte alla sua iridescenza – è veramente difficile pensare a lui.
Cosa strana, per un individuo di taglia grande che sembra voler vincere le elezioni presidenziali con l’argomento «quello che ottieni è quello che vedi» – il cliché che spera rappresenti la sua autenticità. In effetti, Trump – che, credo, sia un vero essere umano – sembra stranamente inconsistente. Qui, devo dire, sto mettendo da parte tutta la sua cortina di fumo e il suo gioco di specchi, le sue «prese di posizione» e «politiche» menagrame e i suoi roboanti, poco plausibili «propositi» su quello che farebbe se fosse eletto a quella che Andrew Jackson una volta definì «la carica più importante del mondo» (oggi potrebbe non esserla più). Sto solo commentando il suo atteggiamento. Guardare Donald Trump, con tutti quei capelli appariscenti, la cera da becchino, la sua rumorosità e l’aria minacciosa, mi fa pensare a quando si guarda in un caleidoscopio scadente in cui si può vedere una successione di mandala, non abbastanza strani, interessanti, memorabili, particolari. Pensare a Trump cercando di fissare il punto che è presumibilmente lì dove si vede, è come volere immaginare quale disegno fondamentale il caleidoscopio contenga davvero, in fondo a quel tubo di carta vuoto. Non ce n’è alcuno.
Potrebbe sembrare ingiusto (potrebbe esserlo, dato che non ho mai conosciuto Trump) giudicarlo in questo modo. Certo, la maggior parte degli indici che utilizziamo per valutare e scegliere i nostri presidenti negli Stati Uniti sono terribilmente impressionistici e labili. Non sceglieremmo una persona per tosare l’erba dietro la nostra casa in base a una tale pietosa quantità di crude prove corroboranti. Innanzitutto, insisteremmo sulle referenze. Dopodiché, avremmo bisogno di sapere che il candidato possa sicuramente riconoscere un tosaerba, e che dimostri di essere portato per usarlo. I presidenti ne sono dispensati più facilmente.
Per inquadrare meglio Trump e misurare il suo «essere reale», ho provato a pensare a delle attività di routine quotidiane che avrei potuto cercare di condividere con lui – in sostanza, per confrontarlo con me, dato che sono ancora abbastanza reale. Tanto per cominciare, sono sicuro che non potrei cenare da solo con Trump nel mio ristorante preferito di Parigi. Rovinerebbe la cena. Sono anche sicuro che non potrei andare a pesca con lui presso un lago fuori mano, nel Maine. Per lo stesso motivo. Sono certo che non potrei spiegargli e interessarlo ai risvolti preoccupanti dell’operazione alla mia ghiandola salivaria (o al mio divorzio – se mai l’avessi avuto). Sono certo che non potrei discutere con lui di un grande romanzo appena letto. Lui avrebbe letto qualcosa di meglio, probabilmente qualcosa che «ha scritto». Sono sicuro che non potrei andare a vedere con lui la maggior parte dei film: parlerebbe senza sosta. Durante tutte queste attività – cose che farei tranquillamente con qualunque estraneo – Trump e io non avremmo niente da dirci. Niente in comune. E il risultato mi ferirebbe spiritualmente. Non so perché sembri importante, ma lo è.
Per essere equo, potrei eventualmente andare a un incontro di pugilato con Trump, o meglio a un evento di arti marziali miste tenuto in una gabbia d’acciaio (avrebbe già degli ottimi posti). Con lui potrei anche andare a un concerto di Bruce Springsteen in qualche arena che possedeva (lì, vedremmo il governatore Christie, che gli piacerebbe), sebbene preferirebbe probabilmente vedere Ted Nugent. Potrei condividere con lui un drink al vecchio Oak Bar nella Plaza (se guardassi in giro per imbattermi in lui. Potrebbe possedere anche quello). Potrei andare con lui a comprare un’automobile molto costosa. Potrei andare con lui a comprare delle scarpe estremamente economiche. Potrei anche andare con lui (sulla sua barca) a pescare pesci vela o squali bianchi o altri pesci mostruosi. Non è che vorrei fare qualunque di queste attività con Donald Trump. Ma potrei provare, mentre non potrei fare le altre, quelle più regolari.
Non che pensi che, per appoggiare qualcuno come presidente, lo si debba immaginare nelle vesti di amico. Non ho nessuna ansia di incontrare, conoscere o essere amico di Barack Obama – sebbene lo ritenga un ottimo presidente e vorrei poterlo votare ancora. Penso solo che, se decidessi di dire qualcosa al presidente Obama – sulla mia operazione, o l’ordinare il merluzzo da Sur le Fil, la prossima volta che è a Parigi, o su quale tipo di filo colorato Mylar è adatto per pescare al lago Wappanooky – mi ascolterebbe e quanto meno cercherebbe di ricordare.
Il che ci porta a considerare quale caratteristica di una persona la fa sembrare reale o autentica, presente, invece di sembrare assente ed evanescente come Trump. Non mi riferisco alla genuina densità e profondità emersoniana, ma ancora su come sembrano le persone, cosa fanno per farci credere che sono presenti.
Ascoltare sarebbe una di quelle cose. Donald Trump non sembra ascoltare la gente, specialmente quella che non corrobora le sue convinzioni (sebbene sembri sentire gli insulti e ami ridicolizzare, minacciare e persino ferire quelli da cui ritiene di essere insultato). Essere in grado di distinguere i nostri bisogni dai suoi sarebbe un altro segno di realtà, invece di credere (come Trump sembra) che i nostri bisogni dovrebbero corrispondere ai suoi. È la seconda cosa. Un altro segno di realtà potrebbe essere che chi investe molto tempo e impegno per convincerci che vuole fortemente qualcosa, deve dimostrarci di sapere un minimo di ciò che dice di volere. Terza cosa. La quarta sarebbe che una persona superficiale è fuorviante quando la verità è facilmente disponibile altrove. La quinta sarebbe che una persona non sparli di chiunque non sia d’accordo con lui virtualmente su ogni cosa, tirando in ballo la sua moralità, etica, religione, matrimonio, razza, il nome del cane. La sesta sarebbe (e qui concludo) che una persona possa associarsi a coloro che sembrano loro stessi reali o autentici, consentendo a noi osservatori di concludere che è come loro. L’assenza di queste qualità è ciò che ci allontana dalle persone. Non è ciò che ci porta ad eleggerli come presidenti.
Ho una teoria. Magari non è nuova. Ma dato che riguarda Donald Trump e la presidenza americana, è discutibilmente interessante. L’altra mattina mentre salivo le scale, la signora che vende cucce per gatti ricamate a mano sotto la finestra del mio ufficio nel Maine mi ha detto che Donald Trump presto si sarebbe ritirato dalla corsa. Non le piace, per cui era una buona notizia per lei. Non aveva appreso perché si sarebbe ritirato. L’aveva sentito alla televisione poco prima di entrare in doccia e si era persa il resto della notizia. Sentire ciò mi ha fatto comunque riflettere sul perché potrebbe effettivamente abbandonare la corsa presidenziale. Cosa che mi ha portato a considerare che potrebbe non volere davvero essere il presidente degli Stati Uniti. Solo perché dice di fare e agire in quel modo... perché dovrebbe avere importanza? Dice qualunque cosa gli venga in mente – non importa quanto stupida o non plausibile – e obietta sempre di non aver detto le cose che sappiamo che ha detto. È come se pensasse che siamo noi a essere inconsistenti. E cosa peggiore – che siamo stupidi, e che le ha inventate solo per divertimento.
Posso dire che il signor Trump mette in mostra alcune tradizionali qualità quasi-presidenziali che potrebbero rafforzare la sua volontà di rimanere in corsa. Ad esempio, finge di odiare la stampa, ma in realtà vive e muore grazie ad essa. Finge un’avversione per Washington, ma non vede l’ora di arrivarci. Fa finta di ammirare la politica bipartisan e la separazione dei poteri, ma in realtà odia entrambi. Finge di essere un outsider della politica, ma in realtà è un consumato e ben inserito oligarca che non rispetta alcuna autorità, se non la sua. Le sue convinzioni morali sono sempre allineate ai suoi interessi privati, e accusa tutti i suoi avversari di essere nemici dell’America. Inoltre è un maschio. Da un punto di vista filosofico, Trump, come molti dei nostri presidenti, crede che la pace debba essere assicurata dalle armi. Ritiene che l’America sia sempre fraintesa e offesa all’estero, come anche dai suoi oppositori in casa. Crede che la storia americana sia una lotta costante per ristabilire il nostro carattere americano e che quel che serve a tutti noi sia essere più americani. Ritiene che il potere del «popolo» (i suoi sostenitori) venga costantemente viziato da una élite, che diffida di quel «popolo» e vuole rubarne i voti. E, naturalmente, è totalmente a favore di Israele.
In più Trump, non avendo alcuna esperienza di governo e mostrando di non aver mai pensato a ciò che realmente fa un presidente, sfrutta la vecchia idea anti-intellettuale americana che ricoprire una carica pubblica sia – come scrisse Andrew Jackson nel 1829 – una faccenda tutto sommato «banale e semplice». O, nel caso di Trump, «una cosa bella». Gli americani, anche i vecchi federalisti del New England, sono sempre stati diffidenti nei confronti del governo – tranne quando potrebbero trarne benefici personali. Allo stesso tempo, la maggior parte degli americani ha scarsa pazienza o apprezzamento per la complessità del governare, e spesso si lascia cullare da sciocche semplificazioni. Preferiamo credere alla falsa idea del dilettante di talento e siamo spesso vagamente offesi da chi è, o promette di essere, un presidente esperto. Barack Obama, ad esempio. È un po’ come noi ex puritani ci sentiamo nei confronti di qualcuno che ha fama di essere veramente bravo a fare sesso.
Ma guardando la presidenza unicamente nella prospettiva che ha dinanzi Trump, e dimenticando per un momento la nostra, come elettori, è difficile pensare che essere presidente renda Trump molto felice. Certo, per un po’ gli piacerà quel successo. Ma Trump è un bugiardo per natura, non per talento. Ricordate tutte quelle «migliaia e migliaia» di musulmani che si suppone abbia visto festeggiare l’11 settembre a Jersey City? E sotto il costante controllo pubblico e del Congresso, sarebbe presto colto a mentire, rendendosi penoso e inefficace (come era successo a Bill Clinton). Potrebbe essere bloccato dalla stessa macchina governativa, di cui non sa nulla. Odia anche essere chiamato a rispondere per le cose che non funzionano, e ne dà continuamente la colpa agli altri, perciò il motto di Harry Truman «the buck stops here» [qui ci si prende la responsabilità, non si passa la mano] non sarà il suo – ciò che farà la gioia dei suoi critici. Peraltro è notoriamente molto suscettibile, tanto che il costante scontro con avversari a cui non può sparare, come una stampa libera e irrispettosa, lo farà quasi certamente impazzire e provocherà sfoghi ancor più stupidi di quelli che abbiamo già sentito, facendolo sembrare ed essere patetico. Inoltre, quasi tutti gli altri capi di Stato saranno più svegli e più giovani di lui, e dovrà sentirselo dire ogni giorno. E alla sua età (lo so, lo so non si dovrebbe parlare di questo, ma sarebbe il presidente più anziano a iniziare il suo mandato), la curva della minima competenza potrebbe essere irrimediabilmente ripida per il presidente Trump. Potremmo finire con Ivanka come nostra «first female», badante del presidente.
Mi rendo conto che non c’è limite al narcisismo, e che la voglia di vincere di Trump potrebbe distrarlo, nel corso di una lunghissima luna di miele, dal rendersi conto che non è poi così bravo a fare il presidente e che in realtà detesta esserlo. Ma a differenza di Ronald Reagan – che Trump ama evocare – la gente di solito più lo conosce, meno lo ama, e la luna di miele non durerà a lungo. Non è un uomo del popolo, né un vero populista. È un sacco di vento ricco e sconsiderato che ama insultare la gente meno potente di lui. Il suo voler essere il messia dei bianchi delusi della classe operaia è, a mio avviso, una messinscena, un’invenzione scaturita dalla sua ambizione e dal disprezzo che quegli uomini provano per il governo, dalla loro paura di perdere potere economico e spirituale in un mondo che sta rapidamente cambiando e diventando non-bianco. In quanto a eroismo, il signor Trump non si distingue particolarmente. Come altri presidenti che abbiamo avuto, potrebbe finire per diventare uno sfortunato prigioniero della presidenza, e noi elettori le sue colpevoli vittime. Potrebbe anche decidere di lasciare. L’ha fatto per tutta la vita.
Oh, certo, se Donald Trump improvvisamente uscisse di scena o facilitasse per il suo partito il compito di scaricarlo durante la Convention repubblicana, potremmo dire che ha dimostrato il suo punto. Ha mostrato che il sistema politico americano è quella farsa che tutti immaginavamo – un campo di battaglia finto dove un buffone come lui può avere successo. Un meta-candidato. Questo gli darebbe quel tipo di vittoria che ha assaporato tutta la vita come magnate della stampa. La vittoria di un bluffer. Se solo potessimo credere che è intelligente fino a questo punto. E no, non è questo il modo in cui il sistema politico americano dovrebbe funzionare. Quando una persona aspira alla nostra presidenza, lui o lei dovrebbe crederci. Ma questa meta-candidatura inventata – se è davvero così – fa venir voglia all’osservatore interessato di chiedere ancora: cosa diamine facciamo in America? Non si tratta veramente della trascurata porzione di maschi bianchi incazzati. Non si tratta veramente dell’impotenza dei repubblicani a mettere in campo un candidato migliore. Non è la nostra stanchezza nei confronti di un governo che non funziona. In fondo non si tratta tanto del governo e neppure di Donald Trump presidente. Questo è solo uno scherzo. Ci sintonizziamo sul signor Trump per le stesse ragioni per cui ci rassegniamo a subire la pubblicità, quando siamo mezzi addormentati la sera tardi, per guardare un film che forse ci piace ma forse no, mentre dovremmo solo andare a dormire e risvegliarci più lucidi. Se quando vediamo Trump pensiamo di provare una sensazione di irrealtà, siamo noi, in realtà, ad essere minacciati di non esistere veramente. Siamo noi a essere colpevoli di non avere in mente qualcosa di meglio. È il nostro malessere nazionale nei confronti della vita a essere diventato il problema. Donald Trump? Vero o no, è solo un sintomo vistoso e scolorito della nostra malattia americana – un’altra delle cose a cui non vogliamo pensare più di tanto.