Il Messaggero, 17 luglio 2016
Il mestiere dell’attore secondo Luca Marinelli
«Una fiammata». Così Luca Marinelli definisce l’ultima stagione che l’ha visto protagonista premiatissimo (David, Ciak d’oro, due Nastri d’argento) di un paio di film cult: Non essere cattivo, opera postuma di Claudio Caligari, e Lo chiamavano Jeeg Robot, debutto alla regia di Gabriele Mainetti. Una fiammata: «perché il successo è effimero e non bisogna montarsi la testa», spiega l’attore romano, 31 anni, applaudito al Festival di Tavolara dove ha accompagnato Lo chiamavano Jeeg Robot in cui fa lo Zingaro, esilarante criminale da fumetto. In Non essere cattivo, invece, ha interpretato il tossico Cesare dal destino disperato. Il cinema d’autore ha trovato la sua nuova star: Marinelli, lanciato nel 2010 dal film di Costanzo La solitudine dei numeri primi, poi protagonista di Tutti i santi giorni e tra gli interpreti di La grande bellezza, è abbonato ai personaggi fuori degli schemi in cui mette talento, anima e una sensibilità estrema. «Nei miei ruoli non convenzionali ho potuto esprimere di tutto: tragedia, umorismo, squilibrio, ossessione. Amo i personaggi da scalare, come le montagne», spiega con un sorriso timido che mette in risalto il suo sguardo chiaro che buca lo schermo e può essere tenero e febbrile, indifeso o spietato. Negli ultimi mesi Luca ha girato tre film che usciranno dopo l’estate.
Cosa può anticipare?
«In Il padre d’Italia, seconda regia di Fabio Mollo, sono un trentenne che viaggia da Torino alla Calabria e, grazie all’incontro con una coetanea (Isabella Ragonese, ndr), imparo a conoscere me stesso e le mie vere aspirazioni. Ho fatto anche delle partecipazioni in Tutto per una ragazza di Molaioli e Lasciati andare di Amato».
Cosa guida le sue scelte, ora che tutti la vogliono?
«Per girare un film devo emozionarmi».
In questo anno di successi, quali sono state le esperienze più significative?
«Ho avuto tanto, ma certi incontri mi sono rimasti nel cuore. A Spoleto, per esempio, è stato bellissimo parlare con gli studenti dell’Accademia Silvio D’Amico, che ho lasciato nel 2009: lo ricordo come un periodo fantastico in cui ho imparato tutto. E mi hanno commosso gli incontri con il pubblico di Non essere cattivo».
Perché?
«Ho capito di aver dato voce ai tanti Cesare che combattono contro un destino ingiusto».
Qual è il pericolo più grande per un attore richiesto come lei?
«Di crederci troppo e perdere il senso della realtà. Faccio un lavoro speciale, ma è pur sempre un lavoro e richiede la massima concentrazione. E non mi sento arrivato».
Oggi dice molti no?
«Mi capitava anche prima, se un progetto non riusciva ad emozionarmi».
Lei vive a Berlino con la sua compagna, l’attrice tedesca Alissa Jung. Come si regola con il lavoro?
«Ho fatto una scelta dettata dal cuore e non me ne sono mai pentito. Ho imparato il tedesco e lavoro anche in Germania: ho preso parte alla serie Pfeiler der Macht. E ogni volta che devo girare un film in Italia, prendo l’aereo e torno. Semplicissimo».
Che opinione si è fatto del cinema italiano recente?
«Non esiste una crisi dei talenti: si fanno dei bellissimi film, anche se non tutti hanno la visibilità che meriterebbero. Ma si produce ancora poco e spesso manca il coraggio: Non essere cattivo e Jeeg Robot, per vedere la luce, hanno attraversato un’autentica odissea perché non voleva farli nessuno».
Come si immagina tra 10 anni?
«Spero di continuare a fare l’attore, e nel modo in cui lo sto facendo adesso con tutte le cose belle che mi accadono».
Sente di appartenere al nuovo star system?
«Non mi pongo il problema, non ragiono in questi termini. Trovo più importante incontrare delle persone che mi aiutino a crescere. È questo il vero successo».