La Stampa, 17 luglio 2016
«Scrivo da un paese che non esiste più». Il reportage dal Vajont di Giampaolo Pansa pubblicato due giorni dopo la tragedia del 1963
Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza (…).
Un tratto dell’alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani. Dal terremoto di Messina non si era più visto in Italia nulla di così orrendo.
Tutto è accaduto in meno di dieci minuti. Longarone è un piccolo comune della vallata del Piave, a venti chilometri da Belluno. Sino a ieri contava oltre quattromilacinquecento abitanti. Lo sovrastava una diga della Società Adriatica di Elettricità (Sade), finita di costruire nel 1960, alta 261 metri, a doppia armatura, la più alta nel suo genere in Italia e una delle più alte del mondo. Il bacino raccoglieva (e raccoglie, perché è rimasto intatto) le acque del torrente Vajont, un affluente di sinistra del fiume Piave.
«Una diga nata sfortunata – diceva oggi uno degli scampati alla sciagura -, perché si trova sotto un monte che si sfalda facilmente». Secondo voci raccolte a Belluno, pare che si fosse progettato di costruirla già attorno al 1925; poi i lavori erano stati sospesi perché sembra che i tecnici avessero il timore che i monti Toc e Duranno, che dominano il torrente, potessero crollare. Sempre secondo voci che circolano a Belluno, due anni fa, a Pasqua, si sarebbe registrato un lieve cedimento della roccia sopra la diga (…). All’inizio di questo settembre, poi, un sordo boato avrebbe fatto tremare i vetri delle case di Longarone. (…) Negli ultimi giorni il livello dell’acqua nel bacino era stato abbassato di 21 metri rispetto a quello normale, come misura di precauzione. Si vedevano frane sulla montagna e alcune famiglie del comune di Erto e Casso erano state invitate a sgomberare per prudenza.
Quanto alcuni temevano è avvenuto ieri sera alle 22,35. Parte degli abitanti di Longarone già dormivano; altri s’erano raccolti nei bar, attorno ai televisori, per assistere alla partita di calcio fra il Glasgow e il Real Madrid; altri ancora si trovavano al cinema a Belluno. Ad un tratto, quelli che erano svegli udirono un sordo boato e avvertirono come un soffio fortissimo di vento che spazzava la vallata. Una enorme falda della montagna era precipitata nel bacino del Vajont.
Un’onda gigantesca si sollevò sopra la diga e tracimò, riversandosi sul corso del Piave con una violenza spaventosa. A giudicare dai segni lasciati sui versanti doveva essere alta più di cento metri. La diga era robusta e resistette. Dopo avere raso al suolo le frazioni di Rivolta e Villanova, l’enorme massa di acqua e roccia si schiacciò contro il concentrico di Longarone e la frazione di Pirago, portandosi via case, strade, ferrovia, argine, alberi. Un istante dopo l’ondata si lanciò a valle, investì la borgata di Faè e proseguì la sua corsa rovinosa verso Belluno e Ponte nelle Alpi.
Mentre la valanga d’acqua scendeva dalla diga, a Belluno mancò la luce. Dopo dieci, quindici minuti in città e a Ponte nelle Alpi gli abitanti che si trovavano ancora per le strade si accorsero con terrore che il livello del Piave era salito all’improvviso, in modo pauroso, tanto da sfiorare le arcate dei ponti. (…)
«Si capì subito che doveva essere accaduto qualcosa di terribile dalle parti di Longarone», racconta un giovane bellunese che accorse con i primi verso i paesi distrutti. «L’acqua copriva quasi per intero la strada; nel buio si sentivano grida, lamenti, invocazioni di aiuto Avevamo delle pile tascabili, ma la loro luce era troppo fioca. Infatti ogni tanto qualcuno di noi inciampava in qualcosa di molle: era un ferito, più spesso un morto. Lo trasportavamo sul ciglio interno della statale e andavamo avanti alla cieca. Scorsi per primo il cadavere di una bambina, poi un paesano di Faè che era ancora vivo ed urlava, poi altri morti, ed altri morti ancora. (…) Avevo percorso quella strada tante volte, ma non la riconoscevo più. Quando arrivammo in vista di Pirago e riuscimmo ad orientarci, la visione fu terribile: Pirago e Longarone erano scomparsi (…)».
Passò la notte, mentre da Belluno e dai centri vicini e poi da tutto il Veneto, dalla Lombardia e dalle altre regioni giungevano i vigili del fuoco, i carabinieri, gli alpini del battaglione «Cadore», gli agenti di polizia, le guardie di Finanza, e molti civili volontari (…). C’erano anche molte ambulanze, ma nella maggior parte rimasero inoperose poiché restava ben poca gente da portare in salvo. (…)
Stamane abbiamo percorso i cinque chilometri di valle sconvolti dall’acqua della diga. (…) Ma soltanto dopo Belluno, giungendo a Faè, ci siamo resi conto delle immani proporzioni della sciagura. (…) Proseguiamo verso Pirago e Longarone. La visione si fa apocalittica. Come ai tempi della peste, sui bordi della strada sono allineati decine di cadaveri e le carogne rigonfie delle mucche. (…) Siamo su un piccolo poggio. Di fronte a noi è come un vasto anfiteatro, brullo e piatto. Qui sorgeva Longarone. Uno degli abitanti ci mostra sgomento quello che ormai non c’è più: «Laggiù in quella conca, dove ora siedono gli alpini, stava la stazione ferroviaria. Al posto di quell’acquitrino c’era il parco Malcom, con i giochi per i bambini. Più in su sorgeva l’edificio delle scuole di avviamento, là dove c’è quel vuoto con grosse pietre». (…)
La diga ha resistito all’urto della enorme frana di terriccio, ma qui a Longarone la poca gente che è rimasta vive con il cuore in gola. (…) I parenti delle vittime (…) si aggirano impietriti di fronte a tanta rovina. C’è chi piange in silenzio, e chi grida, come una giovane signora che si è gettata di corsa nel fango verso la casa scomparsa del fratello, urlando il suo nome fra le lacrime.