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 2016  luglio 17 Domenica calendario

Coltellate, pappagalli e tè: ecco cosa succedeva nei salotti letterari

Louise Colet gli diede una coltellata; l’energica bas-bleu – nel cui salotto, e letto, regnarono Flaubert e Musset – si era vendicata così dello scrittor comico Alphonse Karr, che sparlava di lei e del Ministro della Pubblica Istruzione. Ma perlopiù nei salotti bastava punzecchiare: era anzi doveroso; a inizio Ottocento, la povera madame de Rémusat, da Talleyrand, si imperlava di sudore per lo sforzo di essere sempre pungente. Sarà il problema di Stendhal a Roma: appena diceva qualcosa di caustico, la gente cambiava colore e, letteralmente, scappava. A Parigi, la verve di Stendhal era stata inimitabile; nel 1828, era piombato nel salotto di madame Ancelot, pieno di «accademici e accademizzabili», pretendendo di essere un fornitore di berretti e calzini per l’esercito: stava arrivando l’epoca del juste milieux dei re borghesi, e Stendhal criticò, da imprenditore, tutte le opere letterarie dei presenti in termini di calzettoni, calcagni, solette e fili ritorti, sempre protestando però di non averle lette: ma ne aveva sentito parlare.
Madame Ancelot amava gli uccelli; il suo salotto era pieno di gabbiette, e il cinguettio era assordante; Alfred de Vigny le aveva lasciato in eredità il suo pappagallo, “Cocorita”, e nel trillo generale era stato difficile sentir recitare Rachel, la divina attrice, venuta per farsi conoscere. Dal Seicento di madame de Rambouillet, al Settecento delle dame Lambert e Du Deffand, i salotti creavano le celebrità letterarie, e gli accademici; ma era bene essere brillanti parlando d’altro. Solo Flaubert, stupito di ritrovarsi nel 1867 nel salotto della principessa Mathilde, si era messo a declamare i suoi romanzi, con gli scarpini nuovi di vernice che scricchiolavano; ma si sarebbe guadagnato rispetto definendo lo zar “un cafone”.
I francesi mescolavano intellettuali e aristocratici; gli inglesi seguivano le precedenze fin nei domestici, e il valletto di un duca veniva servito prima del cocchiere di un baronetto. Da Virginia Woolf, le cameriere sapevano bene che offrendo il tè a un poeta – Eliot, per esempio – non bisognava spostare le carte (gli intellettuali hanno più cura dei fogli che delle tazzine).
«Sono una snob?» si chiese Virginia Woolf nel 1936. Pensava piuttosto di sì; ma certo non lo erano i suoi amici. L’economista Keynes preferiva alla carica di Pari appartarsi sul divano, in pieno salotto, con la scapigliata sorella di Virginia, Vanessa Bell – anche se amava piuttosto il convivente di lei, il pittore Duncan Grant. Ma era stato Lytton Strachey, l’impareggiabile scrittore, che aveva cambiato la conversazione di Bloomsbury – lui che poteva irrompere in una stanza dicendo: «Non sentite l’armonia delle sfere», e svenire. Da allora, quei geni abituati a dire, fissando il tappeto, frasi definitive inframezzate da “emh…”, avevano capito che tutto poteva essere detto; e ne approfittarono.
A New York, capitale della Café Society, Edith Wharton teneva in casa solo sei sedie, ritenendo che non ci fossero altre persone da invitare. Ora, un salotto, sosteneva nel 1844 il visconte de Launay, dipende dalla disposizione delle sedie; se sono in ordine, le donne siedono in ranghi compatti e gli uomini in piedi stanno tra di loro – e si sa, senza qualche signora, sono capaci di parlare di cavalli. Al bar, non c’è problema, la forma del cerchio sorge spontaneamente; quando al Café Tabouret all’Odéon Baudelaire evocava i delitti dei papi, il confratello in dandismo, lo scrittore Barbey d’Aurevilly, col suo mantello da hidalgo, sibilava: «Sempre borghese!»; tutti si estasiavano: niente di più atroce da dire al poeta della squisita eccentricità mentale.
Al bar Breton, nel 1930, per far prosperare la letteratura dell’inconscio, pretendeva che gli adepti del surrealismo discutessero in pubblico i loro sogni: solo gli amici, opponeva a Freud, erano in grado di interpretarli. Così, chi sognava cassetti interi di lunghe cravatte veniva subito tacciato di onnipotenza fallica e se sulla punta della cravatta spuntava il viso di Nosferatu, era evidentemente il vampiro ritratto da Dalì nella serie delle strutture molli del Grande Masturbatore.