la Repubblica, 17 luglio 2016
I salotti letterari si sono trasferiti sui social
Ciao Bloomsbury! Archiviati insieme al Ventesimo secolo, circoli e salotti letterari non hanno dato a lungo notizie di sé. Scossi dall’invenzione del telefono, travolti dai cellulari e seppelliti dall’email, sono stati evocati e rimpianti da frotte di memorialisti e sacerdoti della nostalgia. Da noi, casa Bellonci è stato forse l’ultimo e ormai remoto avamposto della società letteraria: non è un caso che la versione estiva di quel salotto – il Ninfeo di Villa Giulia a Roma, dove per settant’anni è stato assegnato il premio Strega – sia stata quest’anno sostituita dal più austero Auditorium progettato da Renzo Piano. E non sorprende che, a voce alta, in parecchi abbiano manifestato il proprio scontento. D’altra parte, era là che continuava a esistere – una sera all’anno e con tinte sbiadite, quando non grottesche – la stagione eroica e mitizzata degli scrittori al tavolo da caffè. Il pettegolezzo, la chiacchiera feroce che si traduce – come assicuravano, ai loro bei tempi, i fratelli de Goncourt – in gesto letterario, in complicità artistica. Nella Parigi di Napoleone III, Flaubert poteva dare a Sainte- Beuve del porco e un mese dopo cercare di convincerlo dell’eccellenza della propria opera.
E così, a furia di sparlare, Zola diventava un “imbecille coscienzioso” e Balzac poco più che un grassone ignorante e seccatore. In grado però di definire l’invidia «quell’orribile tesoro delle nostre speranze deluse, delle nostre ambizioni ferite».
Tutto era possibile aspettarsi dai social, fuorché la rinascita di antiche liturgie. Non si tratta delle comunità di lettori, i già invecchiati Anobii e simili, le pagine Facebook in cui si scatenano fan e haters dei libri in classifica. È uno spazio meno visibile, o meglio: visibile solo da chi tesse – per curiosità, per caso, per utile personale – una rete di amicizie social, quindi in larga parte virtuali, con i protagonisti dei nuovi salotti letterari. Inconsistenti, senza pareti, senza libri e ninnoli sugli scaffali; più che liquidi, aerei. Se guadagni dieci o quindici “conferme” di peso, sei della partita. Come il protagonista delle Illusioni perdute di Balzac (e senza bisogno di arrivare a Parigi), il Lucien de Rubempré dei nostri anni, costruendo il proprio domino, può farsi notare. E affacciarsi, con una disinvoltura che gli schermi alimentano, nel cortile di potentati editoriali, incontrare critici e scrittori, fare i complimenti a un oscuro editor per guadagnarne l’attenzione e spostarla sul proprio manoscritto. Niente di male, è sempre andata così. Forse non ricordate quanto si eccita il solito Lucien conoscendo il signor d’Arthez, editor ante litteram, quanto si accende al consiglio di non fare il verso a Walter Scott e di crearsi una maniera propria, e quanto resta poi stupito vedendo il proprio mentore impegnare un orologio al Monte di Pietà per poter comprare qualche fascio di legna. La via tradizionale – romanzo inedito in busta chiusa o peggio, allegato alla mail – non dà più frutto: tanto vale cambiare itinerario alla propria odissea, salire con altro spirito i «diversi gradini che portano alla gloria» (Balzac).
Un romanzo d’esordio molto interessante, asciutto, cupo (e assai recensito) come
Finché dura la colpa di Crocifisso Dentello, dopo parecchi rifiuti, ha trovato il suo editore quando l’autore era già diventato una star di nicchia. Senza piaggerie, il trentenne Dentello è entrato a gamba tesa nei salotti social, firmando post acidi, provocatori, iperletterari. «Tutti coloro che non avvertono un lampo di emozione alla lettura dei versi di Pascoli meriterebbero di essere radiati dall’albo dell’umanità». Un Lytton Strachey brianzolo: «Taluni risvolti editoriali meriterebbero di essere sanzionati penalmente». E giù titolo e editore. Gli strali di Dentello, le sue idiosincrasie hanno preso piede e, benché non sia titolare di rubriche sui giornali, può capitare che un ufficio stampa o un libraio se ne escano dicendo: «Hai letto cosa ha scritto Dentello?». E intanto lui, senza averli mai incrociati di persona, dialoga con critici come Massimo Onofri e Raffaele Manica, scherza con editor e addetti alla comunicazione dei grandi marchi, parla di Yves Bonnefoy e di Bud Spencer con lo stesso spirito da giudizio universale. Il critico Onofri risponde, elogia, rilancia. Oppure – come fa ogni sera – esterna le sue meditazioni esistenziali partendo dal proprio sigaro.
L’editor di lungo corso Paolo Repetti si ritrae in vesti di zio, il suo collega di sempre Severino Cesari, seguitissimo, racconta le tappe della sua malattia con una delicatezza che sorprende. Il veneto Giulio Mozzi sfida, non a torto, le ghenghe romane e Giuseppe Genna i suoi coetanei. Christian Raimo accende discussioni, Andrea Carraro centellina le sue battute goliardiche e anticonformiste: «E vi auguro la tratta Roma-Torino nello stesso scompartimento di Vecchioni che vi legge per intero il suo ultimo libro». Lo scrittore e critico Matteo Marchesini parte all’attacco, polemizza a spada tratta con tutti, provoca, come la collega Gilda Policastro: «Ah, poi avevo dimenticato di dirvi che Meacci incedendo nella lettura migliora davvero e forse vale la pena proseguire oltre le cento pagine (ma oltre le duecento, non saprei). E però non, come pensano tutti, per la scrittura. Proprio malgrado quella».
I“mi piace” lievitano, ambigui e ovviamente senza coerenza, come negli antichi salotti. Gli ingredienti giusti? Due versi di una tua poesia e una cattiveria, una citazione a effetto e una informazione promozionale, un dotto pezzo su Savinio, un selfie più o meno cool, una battutaccia su Moresco che innesca il profluvio di commenti. Nessuno è innocente, nemmeno l’autore di questo pezzo. C’è il salotto reazionario e il salotto hipster, che ammanta della sua aura à la page il capolavoro giovanile del momento. C’è il salotto alternativo e quello mainstream, il cui titolare si mostra immortalato fra i vip. C’è il covo dei frustrati, la sagra del risentimento e la fiera dell’ironia a tutti i costi (date un’occhiata alla pagina degli Adelphi ignoranti, dove le copertine più ricche di charme dell’editoria italiana si trasformano in spiazzanti parodie, con Jerry Calà al posto di Roberto Calasso). Si ricorda Zeichen dopo la morte e si discute di Albinati dopo lo Strega, gara a chi sminuisce meglio; si dissacra l’autore di culto e si crea il culto dell’autore alternativo, il club Jane Austen è scalzato dal club Elena Ferrante; si condividono memorie («Eravamo io, Edoardo Sanguineti e...»), si traveste da gioco la propria frustrazione. Nulla è cambiato. L’effetto sulle copie vendute? Scarso, ora come allora. Forse perché spesso tutto gira intorno alle copie omaggio. Lo scrittore Tommaso Pincio ha già tradotto in romanzo il colpo d’occhio su questo paesaggio, e l’ha intitolato Panorama, come un ipotetico social popolato da scrittori. Un universo di minuzie e sciocchezze, dove «il bisogno di svelare lati oscuri, di rimestare nel torbido, di sputtanare il prossimo» si mostra per quello che è: irrinunciabile, fisiologico. «Più la vista è scialba, più ti incanti».