la Repubblica, 17 luglio 2016
Qual è la dose di orrore necessaria per sentirsi informati? Riflessioni sulla guerra mediatica
Poiché di ogni carneficina, di qui in poi, avremo immagini a migliaia, con un esercito di smartphone (quelli incolumi) che fa corona alla morte, bisognerebbe aprire il dibattito, un dibattito serio, importante. La riproducibilità tecnica del terrorismo, la sua moltiplicazione mediatica, è o non è un obiettivo fondamentale del terrorismo stesso? Credo che lo sia. Credo, poi, che quelle immagini siano preziose per gli inquirenti, per l’intelligence, per chiunque debba, per mestiere, studiare le mosse del nemico, e archiviare con calma e intelligenza quei gesti genocidi per cercare di combatterli meglio in futuro. Ma per noi? Per noi società mediatica, qual è la dose di orrore necessaria per sentirsi “informati”, quale l’overdose che genera il sinistro spettacolo di ogni folla che si assiepa attorno all’incidente, e si avvicina il più possibile per vedere il sangue? E se poi l’ostensione del sangue è il vero scopo (come in ogni sacrificio umano) di quel rito orribile, non dovremmo al contrario celarlo, coprirlo con un velo pietoso così come si fa con ogni cadavere? Le urla, la morte, lo sgomento delle vittime, la loro inermità calpestata, e perfino (il giorno dopo) il pianto e il dolore di chi rimane, sono cose da pubblicare e postare a prescindere, a tonnellate, oppure ci vorrebbe una drastica cernita? Dal grande editore al piccolo sito, dalla testata con milioni di contatti al blogger di tendenza, ognuno di noi, ma proprio ognuno, deve sapere che la guerra in corso è in larga misura anche una guerra mediatica. Più di ogni altra guerra mai combattuta.