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 2016  luglio 17 Domenica calendario

Tamberi si è rotto il tendine d’Achille. Non andrà a Rio

Un atleta lo sa, lo sente. «È finita». La macchina che sta portando Gianmarco Tamberi da Montecarlo a Pavia, verso il Policlinico San Matteo, sfreccia lungo l’autostrada dei fiori. Il mare scintillante a destra, il buio pesto dentro. «È finita». Sono passate poche ore dal record italiano (2.39 m) con infortunio incorporato del meeting Herculis, quando il mondo di Gimbo si è ribaltato nel tempo di una rincorsa: tentava i 2.41, un salto senza rete («Assurdo dire adesso che non avrei dovuto provarci, è da stupidi. Chi fa il mio sport, sa come funziona. Stai bene, vai. Arrivare a Rio avendo scavalcato i 2.40 mi avrebbe dato una fiducia incredibile...»), è crollato sul materassone urlando. Non ha chiuso occhio, si è svegliato con la caviglia ancora gonfia. «È proprio finita» scrive agli amici sulla strada dell’ospedale, riservando ai tifosi su Instagram una flebile speranza («Incrociate le dita per me»). Parole buone giusto per i social. L’intima certezza è un’altra. Un atleta non può non sapere.
Lesione parziale del legamento deltoideo della caviglia sinistra, senza fratture ossee. La diagnosi del professor Benazzo conferma i pessimi presagi. Poteva andare peggio però, a meno di un mese da Rio (la qualificazione dell’alto è il 14 agosto), è comunque una pessima notizia. Entrambe le terapie, operazione o recupero «conservativo», prevedono due settimane di immobilizzazione dell’arto, due di movimenti parziali e tre mesi di riabilitazione. Troppi. Per Gimbo, bermuda chiari, stampelle e sul volto ancora la mezza barba con cui aveva gareggiato a Montecarlo, è un colpo tremendo. «Perché? Perché? Perché?» non si dà pace. Addio Olimpiade, il sogno di una vita.
La letteratura sportiva è zeppa di eroi caduti e rialzatisi, feriti e guariti, tornati dopo crack bestiali. Ci sarà tempo per sfogliarle, quelle pagine. Oggi ci sono solo lacrime: «Svegliatemi da questo incubo, ridatemi il mio sogno, vi prego. Tutti questi anni solo per quella gara, tutti i sacrifici solo per quel giorno. Vorrei urlare che tornerò più forte di prima ma ora riesco solo a piangere. Addio, mia Rio» scrive su Instagram, Ulisse privato della sua Itaca quando era in vista della terraferma.
Se ha senso recriminare su quello che sarebbe potuto essere e non sarà – una probabile medaglia ai Giochi, dove sarebbe arrivato da favorito con l’oro indoor di Portland e quello europeo di Amsterdam in valigia insieme al rasoio e alla schiuma per il rito dell’half shave che ha fatto di lui un personaggio —, si può ripensare a quella scarpetta che pareva essersi aperta al secondo tentativo a 2.41 e che poi, a un’attenta analisi, si è rivelato un sovrascarpa personalizzato (Gimbo ha il suo nome e la bandiera italiana) che ha ceduto, senza apparentemente influire sull’infortunio. Puro destino, insomma. Bisogna aver fede per abbracciarlo e non scagliarcisi contro. In ogni caso un colpo tremendo al morale della truppa che decollerà per Rio: con la sua verve, unita ai risultati, Gimbo era diventato un capopopolo, dal carisma con cui avrebbe guidato – da capitano – la Nazionale di atletica alla chiarezza di idee con cui aveva osteggiato il ritorno di Alex Schwazer (altro fato, altra storia).
Tamberi resta a Pavia: si va verso l’operazione, forse già domani. Sta nascendo un movimento d’opinione che lo vorrebbe comunque a Rio da spettatore nobile, totem dell’Italia, azzurro arrivato sulla soglia di Olimpia, prima di ricevere la porta in faccia. È troppo presto per decidere, Gimbo ora non ha la testa per un viaggio premio che potrebbe fargli ancora più male. Lo raccontano affranto, a capo chino, spento. Legge tutti i messaggi dei colleghi, gli è rimasta energia solo per twittare. Inutile dirgli che, a 24 anni, Rio sarebbe stata tappa di passaggio, non capolinea. Milletrecento giorni a Tokyo 2020. Obbligatorio crederci. Ci si vede là, caro Gimbo.