Corriere della Sera, 17 luglio 2016
Manuel Poppe Lopes Cardoso, l’uomo che scrive per capire la vita
Lo scrittore, ha detto una volta Borges, rappresenta la vita più che viverla, sentimento che provava fortemente pure Thomas Mann. Ci sono stati peraltro scrittori, anche grandi, che hanno rappresentato non solo, con la malinconia manniana o borgesiana, la vita, ma anche, più concretamente, un Paese ossia istituzioni, valori e princìpi di una società, di una civiltà. Gli esempi sono numerosi e anche illustri. Uno di questi è Manuel Poppe Lopes Cardoso, appartato e intenso scrittore portoghese.
La letteratura portoghese, nota per alcuni suoi grandi intramontabili maestri, da Pessoa a Saramago – la cui amicizia e vicinanza sono state e sono un grande regalo della mia vita, sino all’ultimo incontro con lui e Pilar a Lanzarote, poco prima della sua morte – o a Lobo Antunes, è ricca pure di autori meno conosciuti ma significativi, voci di un piccolo Paese che è stato un grande e composito Impero, una prora d’Europa protesa verso i mari del mondo. Cardoso Pires, Vasco Graça Moura, morto pochissimi anni fa, fine saggista e affascinante poeta, traduttore di Dante; Almeida Faria, col suo Cavaliere errante, e molti altri. Uno di questi, prolifico e versatile, è Manuel Poppe Lopes Cardoso, saggista ( Letteratura viva, José Régio e la libertà poetica ), autore teatrale ( I sopravvissuti, Gli amanti volontari, Pedro Primo, L’arancia ) e narratore ( L’uccello di vetro, La donna nuda, Un inverno a Marrakech, Ombre a Tel Aviv ).
Autonomo nel suo percorso poetico, indipendente da correnti e tendenze che di volta in volta tengono banco, Manuel Poppe Lopes Cardoso, che considera uno dei suoi maestri João Gaspar Simöes, è stato consigliere culturale del Portogallo in Italia, Israele, Capo Verde e Marocco; una stimolante duplicità di rappresentatività ufficiale e vagabondaggio zingaresco, stimolante per la creazione letteraria. Quale di queste esperienze, gli chiedo, ti ha arricchito di più?
Manuel Poppe Lopes Cardoso – Sicuramente quella che mi ha marcato di più è stata l’Italia. I miei 15 anni in Italia. Sono arrivato a Roma il 9 gennaio 1975. Lasciavo dietro di me un Paese che si liberava dalla dittatura fascista, cioè 48 anni senza libertà civile, senza libertà culturale. Ho trovato in Italia l’opposto: la libertà di opinione, la creatività culturale senza censura politica; insomma mi sono trovato dentro un’altra realtà che mi offriva ciò che in Portogallo era vietato. Più tardi, mi hanno dato molto anche gli anni africani, israeliani e marocchini. Rispetto alla letteratura portoghese, mi sento più vicino ad autori come Camilo Castelo Branco, José Régio, Branquinho da Fonseca, Irene Lisboa, Mário de Sá-Carneiro, l’amico intimo di Pessoa, cui Pessoa ha scritto in una lettera: «Lei è di noi due il più profondo». Negli ultimi decenni c’è stato un riconoscimento di una letteratura, quella portoghese, quasi dimenticata.
Claudio Magris – Per quel che riguarda la letteratura italiana, penso alla tua amicizia con Giorgio Voghera, ai tuoi incontri triestini con lui, in cui talora c’ero anch’io… E per quel che concerne il Portogallo, penso naturalmente ad Antonio Tabucchi, a ciò che la civiltà portoghese, nel senso più ampio del termine, ha significato per lui e a ciò che lui ha significato non solo per l’Italia, ma, oltre che per l’Europa in genere, particolarmente per il Portogallo. Hai mai avuto la tentazione di scrivere in un’altra lingua o di indulgere a un meticciato linguistico con gli idiomi fra i quali hai vissuto, come è accaduto a molti scrittori?.
Manuel Poppe Lopes Cardoso – Il passato del mio Paese, la sua storia con i suoi conflitti, la sua complessità, la sua diversità mi hanno influenzato a fondo, anche prima che me ne rendessi conto. La lingua portoghese è il mio cuore, il tramite dell’espressione della mia sensibilità, dei miei problemi, dei miei sogni. Per me l’espressione dello scrittore è indissolubile dalla lingua del suo Paese. Certo, ci sono scrittori – Conrad, Nabokov, per esempio – che hanno eletto un’altra lingua, però li sento quali eccezioni. Sento più vicino Isaac Bashevis Singer, che non ha abbandonato la sua lingua, lo yiddish, pur potendo scrivere anche in polacco o in inglese. Del resto anche tu, pur così radicato nel crogiolo plurinazionale e mitteleuropeo, hai sempre scritto in italiano…
Claudio Magris – Sì, per me sarebbe inconcepibile scrivere in un’altra lingua, ad esempio in tedesco, l’unica in cui potrei farlo (ma solo, come mi è accaduto, per quel che riguarda testi critici o articoli, non testi letterari, di invenzione). Non si tratta soltanto di padronanza di un’altra lingua. Il mio modo di vedere, organizzare, sentire, rappresentare il mondo è legato inesorabilmente alla sintassi italiana. Ma il passaggio da una lingua all’altra, la scissione fra lingua madre e lingua dell’esilio, di cui ci sono tanti grandi esempi, mi hanno sempre affascinato. A proposto di scissione, c’è stata o c’è in te complementarietà o contraddizione tra l’attività di scrittore e quella del diplomatico?
Manuel Poppe Lopes Cardoso – Il mio lavoro diplomatico, durato trent’anni, mi ha dato moltissimo. Mi ha permesso di conoscere non solo e non tanto la rappresentatività ufficiale, quanto la vita concreta, l’umanità dei Paesi nei quali ho vissuto. Questo incontro, queste amicizie sono state un favoloso arricchimento umanistico. La maggior parte dei miei libri sono ambientati in Paesi stranieri. L’Italia – Venezia, Roma – in cinque libri, inoltre l’Africa, Israele e il Marocco, in altre mie opere. Per quel che riguarda gli scrittori italiani, autori che mi hanno molto segnato sono stati Svevo, Saba e Federico Tozzi. Del resto anche i tuoi modelli non conoscono confini...
Claudio Magris – Certo, gli scrittori che mi hanno dato il senso della vita e del mondo appartengono a molte, diverse culture. Un’altra cosa che ci unisce è la varietà dei generi letterari che abbiamo entrambi praticato; saggistica, narrativa, teatro…
Manuel Poppe Lopes Cardoso – In questa varietà, per me è il tema che decide. Un altro elemento fondamentale, per me, è il diverso ruolo che, nell’una o nell’altra storia e dunque nel genere in cui la si rappresenta, giocano lo spazio ed il tempo.
Claudio Magris – Il tuo libro che forse amo di più è un romanzo, L’uccello di vetro. Romanzo d’esordio che è un gioiello di analisi dei sentimenti e delle emozioni, dell’incertezza e dell’ambiguità delle relazioni amorose, del gioco dell’impegno e della fuga, del sentimento più delicato e dell’erotismo. Una storia «italiana» – l’amore di Andrea e della giovane veneziana Lorenza… Una «sismografia dell’animo umano», come il romanzo è stato definito. Un libro complesso, sottile, di passione e delusione, dell’amore che non dura ma che continua anche quando è finito, tema che sento molto. Ti consideri uno scrittore espatriato? Cosa ti spinge a scrivere?
Manuel Poppe Lopes Cardoso – Molto presto, sin dall’infanzia, ho sentito il bisogno di scrivere. Forse per tentare di capire per quale motivo ero vivo, chiamato in questo mondo e, oltre che chiamato a sopportarlo, condannato alla fine alla morte. Non avevo chiesto di nascere. Un’intenzione o una distrazione – chi lo sa? – dei miei genitori mi ha gettato nel circo della vita. Ma, infine, quella dei miei genitori è stata una buona idea. La vita, per breve e complicata che sia, è un terribile e meraviglioso avvenimento. Credo che alla fine, se mi chiedessero se voglio tornare a ripeterla, pur sapendo alla fine di dover pagare, risponderei di sì, di voler tornare ad affrontare di nuovo la vita e la morte.