Corriere della Sera, 17 luglio 2016
Quel rapporto morboso che legava Proust a sua madre
«Mia cara mammina, capisco come debba essere noioso sentir parlare tanto del mio stato di salute». È il settembre 1904, Marcel Proust ha 33 anni, suo padre è morto da pochi mesi. La «mammina», Madame Jeanne Weil in Proust, donna colta, poliglotta, pianista, erede di una famiglia borghese ebrea, andata in sposa al figlio di un droghiere cattolico, non si riprenderà dalla scomparsa del marito. Ha dato tutta la sua vita per lui e adesso le rimane il figlio: «Mi piacerebbe tanto, e lo voglio assolutamente – le scrive Marcel —, potermi presto alzare alla stessa ora in cui ti alzi tu, bere il caffellatte accanto a te… Sentire i nostri sonni e la nostra veglia ripartiti nello stesso spazio di tempo». Convivranno, ma a (rispettive) porte chiuse. In estate lei, già malata ai reni, va in campagna dal secondogenito Robert, mentre Marcel fa una crociera con amici a bordo di uno yacht. Madre e figlio si scrivono. Scriverle, per lui, è un ossessivo rendiconto sulla vita quotidiana e sulla salute: «Mi fa tanto piacere lamentarmi con te». Noioso, per una madre, sentirlo parlare di malattie? «Ti sbagli, mio caro – risponde Jeanne —, le tue lettere sono tutte bellissime, e tutte da me apprezzate, come apprezzo il mio tesoro sotto tutti i punti di vista». Al suo «tesoro» ultratrentenne raccomanda di andare dal barbiere: «I tuoi capelli mi oscurano la vista mentre ti scrivo».
Non un rapporto semplice. Lo racconta bene Evelyne Bloch-Dano nel libro intitolato La signora Proust. Lei è possessiva, onnipresente nell’opera del figlio sin dal bacio notturno al narratore della Recherche. Lui, il «caro povero lupacchiotto», è onnipresente nella vita di lei. Il referto dei suoi dolori e dei suoi attacchi d’asma è un pianto continuo, quasi infantile. In una lettera del 23 agosto 1900, spedita da Evian-les-Bains, fa il bilancio di una notte terribile: «Mia cara Mammina, un’altra crisi, di una violenza e di una tenacia parossistiche (…). Per molti minuti non c’è stata nessuna aria nei miei polmoni. Il mondo letteralmente non entrava dentro di me. Poi, lentamente, ho ripreso a respirare». Dice di poter godere solo di «piccoli pezzi di respiro», parla di una nebbia costante davanti agli occhi, si sente «come dentro la luce notturna di un temporale». Marcel confida, però, in un rimedio decisivo: il progetto di «una scrittura che possa avere il respiro ampio, profondo, solenne, che io non avrò mai, come un lungo soliloquio che il lettore non possa smettere di leggere, ipnotizzato dalle frasi». E aggiunge che ci vorrà tempo, silenzio e costanza: «So che non ci credi, so che vorresti canzonarmi, ti vedo già che ridi, ma vedrai che ce la farò, Mamma. Promesso. Se il mio corpo non può guarire, sapranno guarirmi le mie pagine future. Respireranno loro per me».
Il figlio malato e viziato, che rientra a casa al mattino per svegliarsi alla fine del pomeriggio, ce la farà. La sua vita disordinata, aggiunta alla pretesa che vengano evitati rumori durante il sonno diurno, sono un motivo ricorrente di conflitto tra Marcel e la madre, che non ammette sregolatezze: «Cambia, o non avrai la tua cena», minaccia. E lui un giorno risponde, remissivo: «Preferisco avere delle crisi e piacerti piuttosto che dispiacerti e non averne». Ma poi invece la rivendicazione della propria libertà si traduce in una durissima accusa: «La verità è che quando sto bene, poiché la vita che mi fa stare bene ti esaspera, tu distruggi tutto, finché non sto di nuovo male (…). È triste non potere avere insieme salute e affetto». Tutto fonte di sensi di colpa postumi verso una madre che fu anche vestale, collaboratrice e governante: «Quando penso che non sono riuscito a fare la sola cosa che desideravo, imparare a dormire, quando avevo ancora la mamma, e che quella era la sola cosa che lei desiderava…».
La donna che ha educato Marcel, che lo ha sostenuto, coccolato, frustrato, morì a 56 anni martedì 26 settembre 1905. Per due giorni, il suo primogenito le restò accanto, parlando, piangendo e sorridendo al cadavere: «La mia vita – scriverà – ha ormai perso il suo solo scopo, la sua sola dolcezza, la sua sola consolazione». Jeanne, morendo, aveva portato con sé il bambino e lasciato campo libero allo scrittore.