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 2016  luglio 18 Lunedì calendario

Analisi sulla ritirata in massa dei leader politici inglesi dopo Brexit

Nelle settimane successive al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, quasi tutti i principali leader britannici favorevoli al Leave hanno abbandonato la loro carica o si sono trovati in gravi difficoltà politiche: David Cameron, capo del governo e promotore del referendum; Boris Johnson, politico conservatore e figura più visibile di tutta la campagna Leave; Nigel Farage, leader dello UKIP, il partito di destra radicale nato con lo scopo di far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea. Nell’ultima settimana, hanno fatto la stessa fine anche Andrea Leadsom e Michael Gove, due dei pochi leader del Partito Conservatore favorevoli al Leave, entrambi candidati e poi sconfitti alle elezioni per decidere il nuovo segretario dopo le dimissioni di Cameron.
Come è stato possibile che all’indomani di quella che avrebbe dovuto essere per molti di loro la vittoria più importante della carriera, questi leader si siano tutti trovati in grossi guai? Il presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker ha suggerito una spiegazione molto radicale: il problema è che questi leader hanno paura a gestire il processo di uscita dall’Unione Europea e quindi, dopo la loro sorprendente vittoria, hanno preferito defilarsi. La scorsa settimana, Juncker ha espresso con un linguaggio molto duro questa sua opinione: «Johnson, Farage e altri sono nazionalisti di retroguardia, non sono patrioti. I patrioti non si dimettono quando le cose si fanno difficili. Restano».
LA STRATEGIA
È vero che dimettendosi alcuni di questi leader politici si sono risparmiati la prospettiva di dover trattare l’uscita del Regno Unito con l’Unione Europea, un processo che è stato consapevolmente reso il più difficile possibile per gli stati che vogliono intraprenderlo. Ma sembra che ad aver il maggior peso nelle loro scelte, più che la codardia, siano state le considerazioni personali e gli scontri interni ai loro partiti. Partiamo con le dimissioni di Nigel Farage, il leader dello UKIP che era da molti considerato uno dei principali vincitori del referendum. Dietro la sua scelta di dimettersi c’è probabilmente Arron Banks, il più importante finanziatore dello UKIP. Banks aveva detto due settimane fa che stava pensando di sfruttare il «vento che spira verso destra» per fondare un nuovo partito in grado di raccogliere consensi più ampi rispetto a quelli ottenuti dallo UKIP. In questo suo nuovo progetto probabilmente non ci sarebbe stato posto per Farage, un leader oramai identificato soltanto con la battaglia sull’Unione Europea. Il timore di dover trattare con l’Europa, insomma, non sembra avere molto a che fare con la scelta di Farage.
Quasi altrettanto inaspettata – e ancora più spettacolare – è stata la rinuncia di Boris Johnson a correre per la leadership del partito conservatore – leadership che porta con sé anche la nomina a primo ministro. Dopo l’annuncio delle dimissioni di Cameron, tutti davano per scontata una vittoria di Johnson alle elezioni interne del Partito Conservatore, ma l’ex sindaco di Londra è stato «pugnalato» alle spalle dal suo alleato ed amico, il ministro della Giustizia Michael Gove, che il 29 giugno ha annunciato a sorpresa che si sarebbe candidato a leader del partito, dopo aver passato mesi interi a dire che non riteneva di avere le qualità adatte. Gove non è popolare ed è impacciato in pubblico, ma tra i dirigenti del partito gode di un supporto molto maggiore rispetto a quello di Johnson. I giornali inglesi hanno definito quasi all’unanimità la mossa di Gove un colpo basso e un episodio degno di House of Cards (che è prima di tutto un romanzo e poi una serie ambientata nel Regno Unito, soltanto dopo riadattata negli Stati Uniti). Ma la corsa di Gove, a differenza di quella di Frank Underwood, è stata bloccata: non è riuscito a raccogliere abbastanza voti e si è dovuto ritirare dalle elezioni interne al partito. E la stessa cosa ha fatto una settimana fa l’ultimo candidato pro Leave, Andrea Leadsom, che ha abbandonato la corsa permettendo a Theresa May, favorevole al Remain, di diventare nuovo segretario del Partito Conservatore e nuovo primo ministro del Regno Unito. Eppure, anche se May era favorevole al Remain, ha subito messo in chiaro che da primo ministro farà di tutto per mettere in atto il risultato del referendum e portare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. Juncker, in altre parole, non sembra spaventarla.
Ma da dove arriva il supposto asso nella manica del presidente della Commissione Europea? Si tratta del famoso «articolo 50», contenuto nel Trattato di Lisbona e che delinea le procedure per l’uscita dall’Unione Europea. L’articolo è composto da poco più di 250 parole, che in maniera piuttosto fumosa delineano le procedure per uscire dall’Unione Europea. Tutto comincia con una richiesta formale del Paese che vuole uscire che a sua volta mette in moto una procedura negoziale della durata massima di due anni. Entro questo termine, il Paese che vuole uscire deve accordarsi con l’Unione Europea su come regolare i rapporti con il resto del continente (nel caso del Regno Unito significa riesaminare e in parte riscrivere oltre 80 mila pagine di trattati). Se alla scadenza dei due anni non sono stati raggiunti accordi, il Paese è automaticamente fuori dall’Unione, senza trattati o altre convenzioni a regolare i rapporti con cittadini e imprese che si trovano a lavorare tra Europa e Regno Unito: una situazione da incubo. Di fatto, una volta invocato, l’articolo 50 consegna tutte le carte migliori alla Commissione Europea che a quel punto potrebbe ricattare facilmente il Regno Unito, poiché quasi qualunque accordo è meglio di uscire senza nessun accordo. Come ha raccontato al Guardian Andrew Duff, un ex parlamentare LibDem, che fu tra i redattori dell’articolo 50, la procedura di uscita venne disegnata proprio per dare tutto il potere all’Unione: «Non potevamo permettere a uno stato intenzionato ad andarsene di gestire il gioco troppo a lungo. La clausola lascia le carte migliori nelle mani di chi resta nell’Unione». Non è un caso, quindi, che le istituzioni europee stiano lottando duramente per aver un posto preminente all’interno del team che condurrà i negoziati. Le due «squadre» che si scontrano sono da un lato la Commissione Europea, cioè i «tecnici» guidati da Juncker, intenzionati a far pagare un prezzo salato al Regno Unito; dall’altro il Consiglio dell’Unione Europea, cioè i «politici», che rappresentano gli interessi dei vari stati membri e che, per il momento, sembrano inclini a una soluzione più morbida.
Anche se il Consiglio è in teoria più potente della Commissione e ha già detto che imporrà le linee guida del negoziato, è probabile che i negoziati giorno per giorno saranno nelle mani dei «falchi» della Commissione, intenzionati a sfruttare a pieno il loro «potere di ricatto».
Il team di negoziazione non è ancora stato composto, ma secondo i giornalisti che conoscono le vicende di Bruxelles, l’uomo di punta della Commissione sarà il potente capo di gabinetto di Juncker, Martin Selmayr. Il mandato della Commissione è quello di preservare l’unità dell’Unione e il mezzo che useranno per raggiungere questo obbiettivo è sfruttare appieno il potere di ricatto che gli consente l’articolo 50, in modo da imporre al Regno Unito condizioni così dure da scoraggiare qualsiasi altro stato membro a tentare la stessa strada.
LE PRIORITÀ
Il Consiglio, invece, ha priorità diverse. È formato dai ministri e dai capi di governo di tutti gli stati membri che, oltre all’Unione, hanno a cuore anche i loro interessi nazionali, come ad esempio i 90 miliardi di euro che ogni anno la Germania esporta nel Regno Unito. Il problema è che gli stati membri non dispongono di negoziatori esperti delle minuzie dei trattati come quelli su cui può contare la Commissione: il Regno Unito, ad esempio, sta già cercando all’estero consulenti e diplomatici da reclutare nel suo team. I leader britannici sembrano sapere che li aspetta un negoziato difficile e infatti, fino ad ora, hanno tutti detto invocheranno l’articolo 50 soltanto al momento opportuno, magari dopo essere riusciti a negoziare qualche pre-accordo parziale, in modo da non essere lasciati completamente in balia del conto alla rovescia innescato dalla procedura prevista dai trattati. Ma nonostante le parole di Juncker e l’entusiasmo che hanno suscitato tra i sostenitori dell’Europa, i fatti dimostrano che non è stata la «forza dell’Europa» a portare alle dimissioni dei leader pro-Brexit. A farli cadere non è stata altro che la politica interna del loro stesso Paese.