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 2016  luglio 17 Domenica calendario

Cronaca di un colpo di stato fallito che ha reso Erdogan più forte che mai

Volevano defenestrarlo, ma il risultato è stato rafforzarlo. Hanno persino cercato di ucciderlo, in nome del «rinnovamento democratico della Turchia», nel suo albergo di vacanze presso Marmaris. Eppure, le conseguenze immediate del fallito colpo di Stato sono sotto gli occhi di tutti: Recep Tayyip Erdogan è oggi più forte e determinato che mai. Presidente-leader a vita, Sultano, padre-padrone di un Paese che lui guida dal 2003, chiamatelo come volete. Il fatto è che l’altra notte per un attimo è sembrato potesse cadere nella polvere, addirittura venire ucciso come alcuni dei suoi predecessori nei cinque putsch militari che hanno travagliato negli ultimi decenni la storia della Turchia post-kemalista. E però così non è stato.
Meno di cinque ore sono durate le speranze dei soldati rivoltosi. Nelle dieci ore seguenti migliaia di loro erano già interrogati in carcere. Sin dall’alba di ieri è apparso evidente che le unità dell’esercito in rivolta avevano perso impeto e motivazione solo poche ore dopo aver cercato di prendere il controllo di Ankara e Istanbul. In serata Erdogan è tornato a ripetere allora ciò che aveva dichiarato via Twitter e con brevi messaggio video dal suo iPhone sin dalla mezzanotte di venerdì: «I responsabili pagheranno caro. La nostra vendetta sarà dura e senza tregua. Non ci sarà grazia per i traditori». Saranno tempi duri anche per le opposizioni non golpiste. L’autocrazia del presidente promette che il pugno di ferro colpirà i «terroristi» e i «loro fiancheggiatori». Erdogan voleva cambiare la Costituzione, mirava ad un regime ancora più presidenziale, non esita più da tempo a perseguitare la libera stampa e i pochi poteri legislativi che ancora esprimono critiche al suo stile autoritario. Ovvio che d’ora in poi i loro spazi di manovra saranno ancora più ridotti.
La ricostruzioneIl golpe comincia venerdì verso alle 22 locali. Sono soprattutto unità dell’aviazione dirette da un loro ex comandante, il generale Akin Oezturk, oltre ad alcune brigate di carristi, contingenti della polizia militare, e i corpi scelti della Terza armata impegnati nella regione di Malatya contro gli estremisti curdi del Pkk, a guidare le operazioni. In un breve comunicato annunciano che intendono «ripristinare la democrazia, le libertà civili, l’autorità del Parlamento». I carri armati bloccano i due maggiori ponti sul Bosforo a Istanbul. Autoblindo si piazzano alle entrate dell’aeroporto Atatürk nella città già traumatizzata dall’attentato di un paio di settimane fa proprio nel suo maggior scalo aereo. Ma è ad Ankara che i golpisti colpiscono più duro. Allo scalo internazionale della capitale aprono il fuoco. Poi attaccano il Parlamento. L’aviazione loro alleata lo colpisce dall’aria. Cercano intanto di raggiungere le televisioni nazionali. Vorrebbero diffondere i loro appelli alla rivolta al grande pubblico. Per un attimo è guerra combattuta forte, con i proiettili traccianti che illuminano il cielo e il rombo dei jet a confondere la situazione. Ma falliscono. Erdogan, che con tanto impegno negli ultimi anni si è concentrato nell’eliminare i giornalisti «infedeli», fa appello ai suoi seguaci per rilanciare la «resistenza». I media stanno con lui. «Popolo turco, vi stanno invadendo! Scendiamo tutti per le strade a manifestare contro gli usurpatori, riprendiamoci le piazze», tuona su circa 25 televisioni locali, alle radio e sui social network. Un elicottero lo preleva dal suo albergo a Marmaris e lo depone sulla pista dell’aeroporto Atatürk. Poco dopo cadono le bombe vicino alla camera che ha appena abbandonato. Lui allora diffonde le sue immagini di sfida accolto da un gruppo di fan che applaude. È il segno che è ancora vivo e deciso a resistere.
Gli errori dei golpistiVerso le tre di notte i lealisti iniziano ad avere la meglio sui rivoltosi. Vengono diffuse le immagini di questi ultimi stesi a terra, mentre si arrendono con le mani dietro la nuca. «Erano soldatini spaventati, disorientati, privi di ordini chiari», racconteranno poi quelli che li combattono. «I golpisti hanno compiuto diversi errori. Prima di tutto erano disorganizzati. Con loro non c’era alcun alto ufficiale dello Stato maggiore. Non sono riusciti ad organizzare la loro azione. Ben presto è stato evidente che eravamo di fronte ad un golpe farsa, senza alcuna possibilità di successo. Ma lo sbaglio maggiore è stato bombardare il Parlamento. Le televisioni hanno subito diffuso le immagini del fumo alto sugli uffici del governo. E la popolazione si è fatta una domanda elementare: se questi militari dicono di agire in nome della democrazia, perché allora colpiscono il Parlamento, che ne è il simbolo più visibile?», ci spiega Yalcin Doan, giornalista senior ed ex direttore di Cumhuriyet, uno dei quotidiani più perseguitati per volontà di Erdogan negli ultimi anni. È proprio la disorganizzazione e la mancanza di alti comandanti tra i golpisti che facilita la resistenza contro di loro. Per un paio d’ore in piena notte si spara nei centri delle due maggiori città del Paese. Le emittenti locali mostrano le foto di un soldato che viene disarmato dalla folla e quindi sgozzato su un ponte di Istanbul. In molti casi i contro-rivoltosi assaltano le unità putschiste, portano via i loro mitragliatori, creano barriere umane di fronte ai tank.
Le vittimeI numeri delle vittime per ora sono ancora incerti. Le fonti filogovernative parlano di 280 morti, tra loro molti civili e almeno 104 soldati golpisti. I feriti complessivi sarebbero quasi 1.500. A metà mattinata Erdogan aizzava le unità fedeli del suo esercito a catturare «i terroristi». Gli arrestati sarebbero circa 3 mila. Emerge inoltre un dato inquietante: quasi 2.800 giudici sarebbero stati licenziati o arrestati. Tra loro anche 10 togati dell’Alta Corte, uno dei massimi organi dello Stato. Cosa c’entrano? Nessuno offre spiegazioni convincenti. «Erdogan si sente ora talmente forte da poter colpire le sue opposizioni storiche, anche quelle che non hanno nulla a che fare con i golpisti, anzi le condannano e ne prendono le distanze», ci dice un noto commentatore locale che chiede non venga pubblicato il suo nome nel timore della repressione. A riprova di ciò è il discorso che il presidente pronuncia in serata. «È ora che gli Stati Uniti permettano l’estradizione di Fethullah Gülen, il nostro nemico principale, che ha architettato il golpe», dichiara tra gli applausi in un bagno di folla raccolta in piazza Taksim. La richiesta è antica, sono anni che Erdogan cerca di estradare il popolare leader islamico moderato Gülen. Oggi però la richiesta di Erdogan arriva con la consapevolezza di una forza, un consenso e un carisma accresciuti. I quattro maggiori partiti del Paese si sono schierati dalla sua parte. Tra loro anche i curdi moderati, i quali, pur impegnati in un feroce scontro politico con il partito del presidente, non esitano a criticare il colpo di Stato militare. Le memorie dolorose delle interferenze dei militari tra i primi anni Settanta e l’ultimo decennio del Novecento sono tali che il Paese fa quadrato nel condannare i golpisti. Persino il governo di Atene, certo tradizionalmente non tenero nei confronti di Erdogan, ha scelto ieri nel pomeriggio di estradare sette militari turchi e un civile legati ai golpisti che in mattinata erano fuggiti in territorio greco su di un elicottero Black Hawk dell’esercito quando avevano capito che il loro piano era fallito.