Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 16 Sabato calendario

Ritratto di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza

Marco Menduni e Francesco Semprini per La Stampa
Pensare che era lui a dirmi sempre: ma che me ne importa, della religione». «Lui» è Mohamed Lahouaiej Bouhlel, il carnefice del camion, 31 anni. Arrivato qui, in un palazzone all’estrema periferia della città, cinque anni fa. Sposato e con tre figli. In tasca, un permesso decennale di soggiorno per motivi di lavoro. Ogni mattina al volante del suo furgone, fino a sera a fare il suo lavoro: il corriere. 
A raccontare storie del passato c’ è Masan, un operaio di 33 anni, anche lui originario della Tunisia. Vive nella stessa scala, l’ultima di quattro del palazzo-alveare vicino al casello autostradale di Nizza Nord. «Insomma – insiste l’amico – Bouhlel non sarà certo ricordato per il suo rispetto dei dettami dell’Islam. Nessuno l’ha mai visto in moschea, non rispettava il Ramadan, beveva vino e birra, e fumava, anche le canne. Un radicalizzato? Per noi tutto il contrario, uno che della religione se ne fregava».Però allora c’è qualcosa che non quadra, quando Bouhlel programma e poi realizza una carneficina quasi sotto dettatura dei fanatici jihadisti. Masan se la risolve nella maniera più semplice: «È impazzito, è andato fuori di testa, non c’è altra spiegazione». Gli fanno coro Aida e Shaylmah, altre due ragazze tunisine che vivono nel palazzo. «Se c’era uno tranquillo era proprio lui, fin troppo calmo e riservato». 
I tasselli non quadrano: Bouhlel non era mai entrato nel mirino dell’antiterrorismo, ma nemmeno era un introverso che pensava quasi esclusivamente al suo lavoro di corriere, parcheggiando ogni sera il furgone vicino a casa. Ci sono invece furti, violenze, mani alzate soprattutto in famiglia, dal 2010 a questo 2016. Le segnalazioni: quando litigava con la compagna, si sfogava poi sulle bambole della figlia a martellate oppure lacerava i materassi con un coltello. 
Un ambiente familiare sempre più surriscaldato, poi la decisione della moglie Hajer, nel 2012, di separarsi. «Stavano per divorziare, è vero, lei se n’era andata», conferma Abdul, che indossa una lunga tunica bianca, rifiuta il titolo di Imam ma in realtà è una sorta di guida spirituale del caseggiato. 
L’unico vero impiccio davanti alla giustizia Bouhel l’aveva avuto a gennaio: una zuffa dopo un incidente stradale, l’assalto brandendo una mazza da baseball sul rivale, la condanna a sei mesi bloccata dalla condizionale e sostituita da un obbligo di firma, sempre rispettato. Oggi l’aggredito, Jean-Baptiste Ximenes, tuona sul web: «Dov’è la giustizia? Almeno quei sei mesi avrebbe dovuto farseli, forse ci saremmo evitati questa catastrofe».
La sua indole celata ma violenta stava emergendo, magari risvegliata da un percorso di radicalizzazione sul web? Decisiva sarà l’analisi del suo computer, trovato in casa, dei telefoni e delle carte che gli inquirenti definiscono «interessanti». 
Le radici a Sousse
Poi c’è la sottile linea nera che unisce le due sponde del Mediterraneo occidentale, nera come le bandiere dello Stato islamico. Ha origine in Tunisia, a Sousse, nel nord-est del Paese. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, è nato a Msaken, a una manciata di chilometri da Sousse, non lontano da El Kantaoui, il teatro degli attentati del 26 giugno 2015 a firma Isis. Sousse e Nizza sono gemellate dal 2012: forse non è solo una cinica coincidenza. Ancora: da Sousse provengono alcuni jihadisti della colonna di Sabratha, in Libia. E di lì sono originari alcuni tunisini che hanno vissuto in Italia prima di reinserirsi nella jihad. Di Msaken era Bouhlel, abbiamo detto, membro di una famiglia vicina all’estremismo islamico. 
Questa non è certo la prova del legame dell’autista killer con il Califfato, ma l’azione da lui compiuta «richiede un supporto logistico e finanziario che potrebbe ricondurre a quelle parti della Tunisia», spiegano fonti di intelligence. Sousse è nei radar degli 007 da tempo: nel 2013 un kamikaze si fece esplodere su una spiaggia del posto mentre la polizia sventava un altro attacco a poca distanza. E due anni dopo nella vicina Port El Kantaoui è andato in scena il peggior attentato della moderna storia tunisina: 38 morti, 30 britannici. Peggiore di quello del Bardo in cui tre mesi prima persero la vita 22 persone, per lo più occidentali. 
Ieri è stato il presidente tunisino Beji Caid Essebsi a ricordare i tragici fatti di Sousse in collegamento con il massacro di Nizza. Sousse inoltre è una delle località da cui provengono alcuni tunisini con trascorso italiano prima del reinserimento nella jihad. Sousse infine, con Ben Garden, Zarzis, Sidi Buzzid, è uno dei serbatoi dell’Isis libica, della colonna di Sabratha, quella di Noureddine Chouchane, responsabile sembra del rapimento dei quattro italiani dipendenti della Bonatti. La stessa dove, per l’intelligence britannica, potrebbe essere passato anche Bouhlel.

***

Carlo Bonini per la Repubblica
Chi era davvero Mohamed Lahouaiej Bouhlel? Quale demone ha trascinato questo giovane uomo nato il 31 gennaio del 1985 a Msaken, periferia della tunisina Sousse, al volante di un Tir bianco per farne il nuovo osceno detentore del trofeo di vite umane cancellate da un solo uomo, in un solo luogo, in un solo momento? Dove, insomma, in questo orrore, finiscono la sociopatia e la deriva psicotica e cominciano la religione, il culto mortifero e macabro della parola del Profeta? Oggi, del passato di un uomo che sembra non averne, neppure negli archivi dell’Intelligence per i quali era «un assoluto sconosciuto » , resta un’unica traccia. Nei cinque chilometri e mezzo di strade a gomito che, come una mezza luna, collegano una stamberga al primo piano di Route de Turin, nel quadrante orientale della città, ai dodici piani del falansterio all’8 di Boulevard Henri Sappia, quartiere popolare aggrappato alla collina che guarda la vecchia Nizza e che è tagliato dall’autostrada A8.
In Route de Turin, un anno e mezzo fa, era finito spiaggiato da debiti e pendenze giudiziarie l’uomo che si sarebbe fatto mostro. In Boulevard Henri Sappia, era naufragato in un abisso di collera e violenza il ragazzo padre di tre figli piccoli incapace di tenere insieme il matrimonio con una giovane moglie franco-tunisina, ieri interrogata, che diceva di amare e per la quale, con la contrarietà del padre, un islamista radicale, era arrivato a Nizza dalla Tunisia nel 2011.
Rashid, un maschietto di 14 anni con la maglia del Paris Saint-Germain, indica la porta di legno leggero che affaccia su un lercio pianerottolo al dodicesimo piano del blocco “Bretagne C” in Boulevard Henri Sappia. Esattamente in cima a un’ultima rampa di scale dal corrimano laccato rosso. Rashid spiega di ricordarle ancora le grida di Mohamed. Quasi quanto i suoi muscoli, coltivati ossessivamente in palestra. «Picchiava la moglie. La picchiava spesso. Urlava. Soprattutto nell’ultimo periodo, prima di separarsi». Già, quel giorno, quello in cui si richiuse la porta alle spalle, imbrattò della sua merda l’appartamento, defecando dove poteva e fin quando non ne ebbe più. Quindi, squartò con un coltello gli orsacchiotti di pelouche della figlia più piccola, per poi fare a pezzi i materassi del suo letto matrimoniale e quelli dei suoi bambini. Poi sparì. Salvo cominciare a ripresentarsi saltuariamente con i modi e il fare gentile del padre separato che viene a trovare i suoi figli in attesa della sentenza di divorzio. Maxim, un condomino sulla quarantina, ne parla accarezzando la testa dei suoi due bambini maschi. «Mohamed? Certo che lo conoscevo. Parlavamo spesso della scuola dei suoi e dei miei ragazzi. E posso dirti che quello che ha fatto alla Promenade con la religione e l’Islam non c’entra nulla. Se proprio dovessi dire, aveva un solo problema. Finanziario. Negli ultimi tempi se la passava male. Insomma, Mohamed beveva, non rispettava il Ramadan. Gli piaceva andare a ballare la salsa. Era sempre profumato» . Né si vedeva mai in moschea, a sentire la locale “Association culturelle Nice nord” per l’integrazione religiosa e razziale. Un luogo non lontanto da boulevard Henri Sappia, dove Mohamed era conosciuto. Ma proprio per l’assenza di qualsiasi passione che ricordasse la sua fede, piuttosto che la sua terra di origine.
Un musulmano secolarizzato, insomma. Che aveva trovato un lavoro saltuario da autista e, qualche mese fa, aveva ottenuto l’abilitazione alla guida di mezzi pesanti. Un depresso che alternava picchi di gentile e sincera euforia a scostanti silenzi, a scoppi di collera incontenibile e violenta. Come quello che, il 24 marzo scorso, gli era valso una condanna sospesa a sei mesi di reclusione per lesioni, dopo aver gonfiato con una mazza da baseball due fratelli per un banale tamponamento. Come quelli per cui si era fatto notare dai suoi nuovi vicini di casa, al primo piano di Route de Turin, il suo ultimo domicilio, quello sfondato dai piedi di porco della polizia giudiziaria ieri mattina. E dove, a un certo punto, si era informato se fosse possibile “affittare” una seconda buca delle lettere. Dio solo sa perché. Anche se un perché, evidentemente, doveva esserci.
Fonti di polizia e intelligence sostengono che dalla casa di Route de Turin, insieme a un computer portatile e uno scatolone di carte, siano usciti indizi che fanno dire al primo ministro Manuel Valls che la storia di Mohamed non sia solo affare psichiatrico. Che c’entri l’islamismo radicale in questo orrore. Che i legami tra Mohamed e lo jihadismo esistano. Eccome. E non solo per il “format”. Ma per la rete, il contesto di frequentazioni, che quest’uomo alla deriva si era messo a bazzicare, a cui lo stesso Procuratore di Parigi Francois Molins ha fatto ieri riferimento indiretto e che, in qualche modo, lo avrebbe accompagnato ed eccitato nell’incubare la sua spaventosa uscita di scena. Uno scenario che lascia singolarmente tiepido il ministro dell’Interno francese Bernard de Cazeneuve («Mohamed era legato allo jihadismo? No», ha detto rispondendo ieri alle domande di un’intervista televisiva), ma che calzerebbe come un guanto con la più spaventosa e per certi aspetti realistica delle previsioni che l’Antiterrorismo francese va facendo da tempo. Che esista un secondo stadio, una sorta di evoluzione “finale” e “definitivamente asimmetrica” del Terrore seminato dai cosiddetti “lupi solitari”. Quello che li vorrebbe “neutri”, impermeabili nei modi e nelle parole (quantomeno quelle pubbliche) al “radicalismo islamista”, che è poi primo e unico degli indizi che, in qualche modo, li rendono riconoscibili alla comunità in cui vivono prima ancora che ai poliziotti che dovessero avere la fortuna o l’intuito di individuarli. Che li vorrebbe dunque “fantasmi”, estranei a qualsiasi forma di censimento preventivo (come sono in Francia le cosiddette fiches “S”, le segnalazioni che accompagnano i profili ritenuti a rischio) di fronte anche alla più occhiuta e penetrante delle polizie di prevenzione. Consegnandoli tutt’al più, come era del resto accaduto a Mohamed, a piccoli precedenti penali. Violenza, armi. Quelli che, ancora oggi, fanno dire all’avvocato Corentin Delobel, suo legale nel processo per rissa dell’inverno scorso, che «nulla avrebbe mai fatto immaginare che quell’uomo potesse commettere atti di tale disumanità». E a suo padre, Mohamed Mondher Lahouaiej Bouhlel, che suo figlio, di cui aveva perso i contatti da cinque anni, «aveva un solo problema. La depressione. Ne soffriva dal 2002. Prendeva dei farmaci».

***

Roberto Bongiorni per Il Sole 24 Ore

Sono uno sciame di api senza alveare. Che si disperdono impazzite. Non agiscono insieme, non hanno un centro di comando, rispondono solo alla propria follia. Proprio per questo possono colpire con più frequenza e meno prevedibilità. È l’armata invisibile dei lupi solitari, dei jihadisti fai da te. Spesso cresciuti nei Paesi europei che decidono di colpire. Paesi di cui parlano perfettamente la lingua. Un’armata che si spera piccola, ma di cui sappiamo poco. 
Non ci sono ancora conferme. Ma le notizie finora diffuse sull’autore della strage di Nizza sembrano corrispondere all’identikit del lupo solitario. Si chiamava Mohamed Lahouaiej Bouhlel, aveva 31 anni. Era tunisino ma dal 2011 risiedeva a Nizza con un regolare permesso di soggiorno di 10 anni . Ottenuto grazie al matrimonio con una franco-tunisina di Nizza da cui ha avuto tre figli e da cui stava divorziando. Così come moltissimi tunisini residenti in Francia. Sappiamo anche che lavorava come corriere per la consegna di merci. Dunque non era neanche disoccupato. Ma soprattutto, come ha rivelato una fonte del ministero, «non era inserito in nessuna lista di ricercati per terrorismo». Come altri lupi solitari non era un fervente religioso. I vicini di casa lo hanno definito una persona «solitaria e silenziosa». Per quanto il padre in Tunisia fosse un fervente islamista, il figlio non dava certo la stessa impressione . Anzi. Spesso girava in pantaloncini, amava ballare e sembra facesse uso di droghe. 
Come fermare queste schegge impazzite? Certo, anche Mohamed Lahouaiej Bouhlel aveva alle spalle dei precedenti penali. Reati minori commessi tra il 2011 e il 2016, come ha precisato il procuratore della Repubblica François Molins. In marzo era stato condannato a sei mesi con la condizionale per «violenza domestica». Da un paio di settimane era sotto controllo giudiziario dopo essere stato fermato dalla polizia per un incidente con il camion. Ma se si dovessero sorvegliare tutte le persone con precedenti penali, anche piccoli, anche selezionando solo i cittadini di origini arabe o i musulmani (peraltro i lupi solitari possono non avere precedenti ed essere di origine europea), ci vorrebbero centinaia di migliaia di poliziotti e investimenti proibitivi. Una sfida quasi impossibile. Che peraltro non garantirebbe i risultati sperati.Ecco perché i lupi solitari sono per l’Isis un’arma strategica. Ecco perchè cerca di arruolarli con la sua propaganda martellante. 
«Cari lupi solitari», scriveva il 21 maggio il portavoce del Califfato, Mohammed al-Adnani, invitandoli a seminare il terrore con ogni mezzo. Già nel 2014,in un video, la leadership dell’Isis invitava a uccidere i francesi: «Rompetegli la testa con una pietra, uccideteli con un coltello, investiteli con la vostra auto».Difficile pensare a delle coincidenze riguardo ai due attentati accaduti in Francia dopo quell’appello. Quello del 20 dicembre 2014 a Digione,quando un uomo a bordo della sua auto aveva investito e ferito, all’urlo di Allahu Akbar 13 passanti. E quello,due giorni dopo, di Nantes, dove un altro terrorista aveva lanciato il suo furgone contro un chiosco gridando «Dio è grande» e ferendo 11 persone.
Da tempo,dunque,l’Isis esorta i suoi simpatizzanti sparsi nel mondo a compiere attentati con ogni mezzo a disposizione. Senza ricorrere necessariamente alle armi convenzionali. Un camion lo poteva guidare chiunque. L’attentato di Nizza ha segnato però una svolta. I “jihadisti fai da te” erano stati finora meno letali. Gli 84 morti di Nizza sono invece un bilancio pesantissimo. Non l’opera di un commando addestratosi per mesi come negli attentati di Parigi e Bruxelles. Ma, in apparenza, di un uomo comune. Un attentato costato pochissimo.
Questa non è nemmeno più una guerra asimmetrica. Ma una guerra polverizzata, atomizzata. Dove non si possono usare bombardamenti e i nemici sono dispersi, invisibili. Arrendersi all’idea che sia una guerra che non si può vincere sarebbe un errore fatale. Lo sarebbe anche cambiare i valori e i principi del mondo occidentale. Perché non uscire più di casa, vivere nel terrore, sospettare anche del vicino della porta accanto, farebbe il gioco dell’Isis o di al-Qaeda.
Saranno necessarie importanti restrizioni della privacy, delle libertà, di Internet. Ma non basterà. Il nemico invisibile si sconfigge sgretolando la folle ideologia di cui si nutre. L’Isis lo sa. Ed è forse la cosa che teme di più.