La Stampa, 16 luglio 2016
Chi è Fetullah Gulen, il grande nemico di Erdogan
Un santo secondo alcuni, l’eminenza grigia della Turchia moderna per eccellenza, secondo altri. Quel che è certo è che di Fetullah Gulen è stato scritto tutto il bene e il male possibile. Filosofo, ex-imam, imprenditore, Gulen è stato a capo per anni di un impero economico e finanziario dalle proporzioni inimmaginabili. Un impero che, dal 2013, Erdogan ha cercato di smantellare progressivamente.
Nato a Erzurum nell’Anatolia profonda nel 1947, Gulen ha iniziato ad avvicinarsi all’Islam già da quando era bambino. Suo padre era un imam e sua madre una donna estremamente devota. La svolta arriva quando entra in contatto con Said Nursi, uno dei pensatori islamici più influenti nel Paese, che conta milioni di seguaci, raggruppati della Nurcu, la confraternita che porta il suo nome. Nursi è un elemento ben noto ai militari. Finisce in galera più volte, passa la maggior parte della sua vita da sorvegliato speciale, ma questo non gli vieta di continuare a diffondere il suo pensiero tramite gli adepti della sua confraternita. Gulen ne rielabora i tratti essenziali, lo connota di più verso un Islam socialdemocratico: parla di fratellanza universale, di dialogo con il cristianesimo e Israele, di pace mondiale. Però, nel frattempo, sviluppa anche un ottimo senso degli affari e comincia a fare una marea di soldi, soprattutto tramite le sue scuole, che sono un modello di eccellenza per la qualità dei servizi offerti e che vengono aperte ovunque, anche in molti paesi all’estero. La presenza all’estero dei gulenisti non è invasiva come quella del Milli Gorus, il movimento per la visione nazionale fondato da Erbakan, il padre spirituale di Erdogan. Per molti all’estero Gulen è considerato il fiore all’occhiello della Turchia, anche di quella più confessionale, un interlocutore credibile, con cui intavolare un dialogo proficuo.
Ma in Turchia i dubbi dell’establishment laico rimangono, eccome. Per molti, Gulen è solo più furbo e strisciante di Erdogan ed Erbakan, ma l’obiettivo è lo stesso: radicalizzare non solo la società turca, ma anche le comunità islamiche all’estero. I sospetti aumentano quando nel 2002 il filosofo, che dal 1999 vive negli Stati Uniti, ufficialmente per motivi di salute, inizia a sostenere l’ascesa politica del giovane leader islamico-moderato. Gulen non solo ha tanti soldi, ma soprattutto possiede due fra i principali quotidiani del paese: Zaman, una portaerei da 700mila copie, e Taraf, con tiratura più limitata, ma che dalla sua fondazione, nel 2006, non fa altro che pubblicare scoop che mettono in cattiva luce i militari.
Il legame fra i due sembra solido, nonostante le posizioni di partenza. I due uomini vengono da due ambiti contrapposti della destra islamica turca. C’è poi la volontà di entrambi di controllare in modo esclusivo il Paese, anche se, anche qui, in modo diverso. Erdogan con le istituzioni, Gulen con tutto il resto, polizia e magistratura incluse. La prima frattura arriva durante i processi contro Ergenekon, quando ambienti vicini ai gulenisti fecero capire al governo allora guidato da Erdogan di non gradire una caccia alle streghe di tali proporzioni. La goccia che ha compromesso definitivamente i rapporti fra i due è stato l’attacco della marina israeliana alla Mavi Marmara, con la decisione della Turchia di rompere i contatti con Gerusalemme, aspramente criticata da Gulen in persona. Il pensatore manifestò anche la sua vicinanza alla piazza di Gezi Parki, brutalmente repressa nel 2013.
Il 17 dicembre di quell’anno rappresenta un punto di non ritorno. Gulen viene accusato, non a torto, di avere istigato la più grande operazione giudiziaria ai danni dell’esecutivo. Metà governo viene indagata per corruzione. Il premier Erdogan rimane in piedi per miracolo. La reazione è feroce: i quotidiani del pensatore vengono chiusi, alcuni loro giornalisti sono costretti a scappare all’estero. Per lui viene chiesta l’estradizione agli Usa, ma viene respinta. L’eminenza grigia della Turchia moderna finisce al primo posto tra i terroristi pericolosi. Ma Erdogan non si sentiva tranquillo e negli ultimi mesi aveva fatto arrestare decine di suoi stretti collaboratori nell’attesa di arrivare alla sua testa. Prima che facesse in tempo a fargli qualche altro brutto scherzo.