La Stampa, 15 luglio 2016
In una Roma impastata «de mmerda e dde monnezza», i porci attorno ai cassonetti resistono al terzo millennio
La spazzatura di oggi almeno non cambierà l’orografia della città come successo in passato: Monte Testaccio è tale da quando la vegetazione ha coperto i cocci d’anfora abbandonati in antichità e Montecitorio ha il rilievo della collinetta per una discarica medievale. Poi Roma è così: sopra il brutto costruisce il giusto e il bello. A Monte Testaccio ha sede l’associazione Diritto all’ambiente e a Montecitorio la Camera dei deputati, e non si facciano ironie sull’immutata destinazione d’uso. Ecco, forse Virginia Raggi non lo sa, ma è l’ultimo erede di Giulio Cesare a cui appartiene il primo editto antirifiuti di cui si abbia notizia. È del 46 avanti Cristo, la promozione di un appalto per la ripulitura delle strade. C’era infatti l’abitudine di gettare dalle finestre avanzi di cena, rottami, escrementi e soprattutto dai piani più alti delle insule, i condomini di allora, che di piani ne avevano sei o sette e chi stava in cima – i più poveri – non aveva voglia di affrontare tanti scalini per portare la spazzatura nelle pattumiere a terra. Le schifezze pubbliche del tempo si sanno, i macellai lanciavano rimasugli e interiora delle bestie sul selciato, attirando topi e blatte, compagni d’avventura nei secoli dei secoli. Quello che si raccoglieva veniva buttato nel Tevere, dove già spurgava la Cloaca Massima, e il fiume cominciò a fare ribrezzo molto presto.
Il fallimento di Giulio Cesare, che non era Gianni Alemanno o Ignazio Marino, darà la dimensione della faccenda. E infatti più di un secolo più tardi il poeta Giovenale inviterà i concittadini a redigere testamento, se uscivano di sera, perché con la complicità del buio dalle finestre continuava a piovere di tutto, un pitale d’urina – scocciante – o un vaso inservibile – probabilmente fatale. E sì che quella era la città più moderna del pianeta, con fogne e terme a conservare un po’ di igiene collettiva. Ma è come se qui a Roma si fosse ereditata un’irresistibile propensione ad abbandonare al suolo l’inutile. Fino a pochi mesi fa l’inutile è stato riversato nella gigantesca discarica di Malagrotta come venti secoli fa nei puticuli, buche appena fuori le mura dove fra l’altro trovavano ultimo domicilio i cadaveri di schiavi e giustiziati, e in iscrizioni di epoca imperiale si invitavano i romani a non abbandonare salme in zone così prossime al centro abitato. Sui muri dei palazzi sono almeno una settantina le iscrizioni più recenti – Sei e Settecento – in cui si proibiva «di fare il mondezzaro nella piazzetta avanti questa porticella» (per esempio). Tutte firmate da questo o quel Monsignore illustrissimo incaricato dal Papa. Nel frattempo di editti ce n’erano stati altri e altrettanto vani, malgrado il variare e il crescere di punizioni pecuniarie e corporali. Gli Statuti di Roma del Trecento avevano fissato precise regole precisamente disattese, tuttavia eternamente riproposte «contra quelli che tengono o mandano o manderanno li porci per Roma». Previsione azzeccata: i porci attorno ai cassonetti resistono al terzo millennio.
È l’anarchia delirante di questa capitale magica, a cui capita di vergognarsi davanti ai turisti per sacchetti e vetri e mozziconi e materassi lasciati agli angoli di gloria in cui tre secoli fa si lasciavano «fieno, paglia, animali etiam morti». E che mandava ai matti i suddetti cardinali illustrissimi che transitando in carrozza a piazza San Silvestro, diretti a Propaganda Fide, involontariamente si portavano via i panni stesi dalle lavandaie: seguì altro editto inciso nel vento. E su questi ordini e disordini si procede attraverso la storia, pigliandosela con la casta, ma trascurando almeno un poco, come scrisse Giuseppe Gioachino Belli, che «noi se sa, ar Monno semo ussciti fori impastati de mmerda e dde monnezza».